I primi anni del
neonato Regno d’Italia si compirono all’insegna della completa unità del paese,
del risanamento delle finanze dello Stato e del consolidamento delle
istituzioni. Di ciò si incaricò quella Destra storica diretta discendente di
Cavour, impossibilitata tuttavia a scorgere l’impellenza delle importanti
riforme sociali di cui la penisola aveva forte bisogno.
Il raggiungimento
del pareggio di bilancio aprì così, quasi paradossalmente, la fine di un’epoca
e il principio dell’ampio periodo delle riforme della
Sinistra storica dei vari De Pretis, Crispi, Cairoli e Giolitti.
In questa Italia,
nel 1869, nacque Gaetano Bresci, da una umile famiglia di contadini di Prato. Da bambino
lavorò come calzolaio, a poco più di undici anni era già operaio in fabbrica, a
quindici era iscritto al circolo Anarchico di Prato e operaio specializzato
nella decorazione della seta. Uno degli impresari che testimoniò anni dopo al
suo processo lo raccontò come un lavoratore eccellente.
Il giovane Bresci
crebbe nel solco delle profonde disuguaglianze
sociali che dilaniavano l’Italia di fine Ottocento, senza tuttavia mai nascondere la propria conflittualità
verso i governi della Sinistra storica che in quegli anni avviavano il lento e
graduale processo di riforma sociale. Nel 1877 la legge Coppino introdusse
l’obbligo scolastico, che si limitava però a tre anni di elementari.
L’analfabetismo passò dunque dal 78% del 1861 al 56% di fine secolo. Lo stato
monarchico, seppur retto dallo Statuto e imperniato sul parlamento, riservava
il diritto di voto a due italiani su cento, passati a sette con l’allargamento
del 1882.
Fin
dall’adolescenza Bresci maturò quindi un fervente rifiuto per il
sistema politico ed economico che relegava la
maggior parte della popolazione in condizioni di indigenza. Così a ventitré
anni l’impegno politico prese il sopravvento sulla sua vita: aderì al suo primo
sciopero di fabbrica e venne condannato a quindici giorni di reclusione per aver
difeso un fornaio da un funzionario di polizia. Via via arrivarono i problemi
più seri con la giustizia del Regno, soprattutto a seguito della legislazione
repressiva di Crispi. Dapprima segnalato come eversivo pericoloso fu quindi
tradotto al confino presso Lampedusa, dal quale uscì solo grazie all’amnistia
concessa nel 1896 a seguito della disfatta militare di Adua.
Al carcere seguì l’esilio volontario negli Stati Uniti, nei quali sbarcò l’anno seguente a bordo del piroscafo
Colombo. Andò a vivere nella cittadina operaia di Paterson, nel New Jersey, dove poté riabbracciare molti anarchici
italiani che vi avevano trovato rifugio. Una curiosa inchiesta del New York
Times stimò infatti nel 1898 che su diecimila italiani presenti nella
cittadina, oltre un terzo leggesse assiduamente “La Questione Sociale”,
quotidiano diretto dal celebre anarchico Errico Malatesta a cui anche Bresci iniziò subito a collaborare.
Mentre la vita per
gli esuli anarchici trascorreva tra il lavoro in fabbrica, i circoli e le
redazioni dei giornali, in Italia continuava la linea dura del governo sulle
rivolte di piazza. A Conselice, nel ravennate, i gendarmi spararono sulla folla
radunata davanti al municipio per chiedere l’abbassamento da dodici a otto
delle ore giornaliere di lavoro, uccidendo due lavoratrici delle risaie, un
sarto e ferendo altre decine di operai. Nel 1894 il rinato governo Crispi
dispose lo stato di assedio per i moti di protesta scaturiti a causa delle precarie
condizione economiche in Lunigiana e nelle campagne siciliane. Due anni dopo
l’anarchico Paolo Lega attentò alla vita dello stesso Crispi, il quale reagì
con una dura serie di leggi che disposero lo scioglimento di tutte le
associazioni anarchiche e socialiste, arrivando perfino al temporaneo
scioglimento del Partito Socialista Italiano.
Il massimo della
tensione si ebbe però nel 1898 con le proteste
scoppiate in tutta Italia a causa dell’aumento del prezzo del pane. La protesta esplose con maggiore violenza nel maggio a Milano, quando in seguito
all’uccisione di alcuni operai in protesta, le piazze si riempirono di rivoltosi
e per le strade si cominciarono ad erigere le barricate. Il governo guidato da
Di Rudinì conferì pieni poteri al generale Bava Beccaris e ai militari fu dato
l’ordine di far fuoco con i cannoni sulla folla. La rivolta si concluse con
migliaia di feriti e centinaia di morti, per i quali re Umberto I conferì a
Bava Beccaris l’onorificenza della Croce di Grande Ufficiale dell’ordine
militare di Savoia e il seggio di senatore.
Con il racconto di
queste immagini nella mente il diciassette maggio del 1900 Gaetano Bresci salpò
dagli Stati Uniti alla volta dell’Antico Continente con un biglietto di terza
classe e una rivoltella Hamilton & Richardson in tasca. Dopo alcuni viaggi
per l’Europa e una visita alla famiglia, giunse a Monza verso la fine di luglio.
La sera del 29 si recò quindi con il proprio revolver a cinque colpi presso
il campo sportivo della società ginnica “Forti e Liberi” dove doveva avere
luogo una premiazione. Bresci aveva la fama di ottimo tiratore, dovuta
all’abitudine di recarsi al poligono, disporre una fila di damigiane di vino ed
abbatterne i colli uno per uno. Così quando Re Umberto I si apprestava a
risalire sulla propria carrozza al termine della premiazione che aveva appena
officiato, tre dei quattro colpi esplosi da Bresci gli perforarono il collo, il
cuore ed i polmoni. Un quarto d’ora dopo il Re d’Italia spirò nella
camera da letto del vicino palazzo reale.
Gaetano Bresci fu
immediatamente arrestato e non oppose resistenza. Inutile dire che nei giorni
successivi l’opinione pubblica sconvolta e la stampa fecero a gara per produrre
i peggiori improperi e le più crudeli descrizioni. Il processo venne istruito a
tempo di record.
Bresci dapprima
chiese di essere difeso da Filippo Turati, leader del Partito Socialista Italiano, il quale forse
timoroso, rifiutò con la scusa che da anni non esercitava la professione
forense. Consigliò però l’avvocato socialista, di anarchica gioventù, Francesco Saverio Merlino, la cui arringa difensiva fu un esempio di retorica, ancora
consultabile negli atti processuali che si sono conservati. Il regicida fu
processato in un solo giorno, al punto che Merlino dovette studiare le carte
sul treno per Milano, e condannato all’ergastolo, di cui i primi sette anni da scontare in isolamento.
Gaetano Bresci dal canto suo dichiarò che non aveva inteso di colpire la
persona del Re, ma il sistema oppressivo che esso rappresentava. Disse infatti
poco dopo l’arresto: “Io non ho ucciso Umberto. Io
ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio”.
Tra gli anarchici e
i socialisti le reazioni furono diverse. C’era chi vedeva nell’omicidio del Re
un atto di liberazione e chi ne contestava le conseguenze nefaste che ne
sarebbero seguite. Turati denunciò pubblicamente le condizioni disumane cui Bresci venne
sottoposto: torturato prima
del processo alla ricerca di complici, venne poi tenuto sempre con la camicia
di forza e le catene. Per evitare un tentativo di liberazione degli anarchici i
luoghi di detenzione rimasero segreti, ma c’è chi sostiene che sotto la
finestra di una cella sudicia e sotterranea del carcere di Portoferraio, Bresci
incise le parole “la tomba dei vivi”.
Di certo sappiamo
che giunse nel carcere dell’isola di Santo Stefano, dove fu predisposta una
apposita cella di totale isolamento. In quella stessa cella la mattina del 22
maggio 1901 venne trovato impiccato con un lenzuolo. L’autopsia rivelò che il
corpo era da tempo in decomposizione, dando adito all’ipotesi largamente
sostenuta che si fosse trattato di un omicidio di stato.
Così a trentadue anni morì
Gaetano Bresci, lasciando una moglie e due figlie a Paterson, graziato solo
apparentemente dall’abolizione della pena di morte voluta da Zanardelli nel
1889 all’interno del processo di riforme della Sinistra storica.
Nove anni dopo a
Monza, Vittorio Emanuele III fece innalzare un monumento nel luogo in cui fu
ucciso il padre. Qualche tempo dopo Ezio Riboldi, primo sindaco socialista
della città, fece visitare il monumento ad un giovane collega di partito, il
quale con la visione e l’ardire che nel bene o nel male contraddistingue gli
uomini destinati a scrivere la storia, incise sulla porta “Monumento a Bresci”. Costui è ricordato con il nome di Benito Mussolini.
Per anni gli
anarchici di tutto il mondo cercarono il luogo di sepoltura del giovane
regicida, a cui non fu fatto l’onore di una tomba. Meno famoso del suo collega
britannico Oliver Cromwell, per decenni ispirò gesti disperati e coraggiosi di
uomini in cieca lotta contro l’oppressione.
Quando qualche
tempo dopo il venticinquesimo Presidente degli Stati Uniti William McKinley fu
ucciso in un attentato a Buffalo, nella tasca dell’attentatore si ritrovò un articolo di giornale su Gaetano Bresci.
Fonti