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martedì , 19 Marzo 2024

Il bivio davanti a noi

Le elezioni dello scorso 25 settembre si sono risolte, per la prima volta dalle votazioni del 2008, con la formazione di una legislatura con una chiara maggioranza politica. Tutto ciò produrrà, a breve, la probabile nascita del Governo Meloni.

Per il Partito Democratico il bilancio della partecipazione alle elezioni politiche italiane è davvero piuttosto magro. Presente per la quarta volta sulle schede elettorali italiane dal 2008, in due occasioni il PD ha perso contro schieramenti capaci di generare maggioranze parlamentari nette (2008 e 2022); in una occasione (2018) il PD è stato pesantemente sconfitto alle urne ma la legislatura risultante non era chiaramente connotata da maggioranze autosufficienti; solamente nel 2013, e solo sul piano della composizione numerica del Parlamento il PD aveva, alla Camera, i numeri per poter produrre un Governo autosufficiente. Se il bilancio della partecipazione alle elezioni è stato magro, quello della partecipazione ai Governi è stato incredibilmente molto rigoglioso. Nei quattordici anni trascorsi tra il 2008 ed oggi, il PD ne ha passati undici al Governo. Parallelamente a questo ciclo di Governo lunghissimo, che comprende più di due legislature complete, i voti del partito sono diminuiti di oltre il 50% rispetto al risultato del 2008. Oggi il Partito Democratico ha poco meno dei voti della Margherita del 2001: 5.355.000 voti oggi, contro 5.391.000 della Margherita rutelliana del 2001.  

Le ragioni della sconfitta sono chiare e come ovvio riguardano sia il piano strategico che quello tattico; bisogna però evitare il ricorso a quella particolare forma di gattopardismo (o trasformismo) che è la “palingenesi opportunistica”. Il ricorso a parole quali “ricostruzione, progetto, radicalità, ritorno nelle periferie” (e la loro versioni psicologiche: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, a chi serviamo) rischiano di essere delle parole molto forti e toccanti, rivolte ad una comunità sempre più asfittica numericamente e politicamente, che però hanno l’effetto di produrre solamente retorica del cambiamento. Appare chiaro sin dalle prime dichiarazioni che più si alza il livello retorico del prossimo Congresso più si produce carenza di concretezza perché le posizioni si divaricano e diventa inevitabile la vuota sintesi “estetica” che nasconde però il nulla concreto e, spesso, la conservazione delle posizioni.

Il primo punto quindi dovrebbe essere quello di riconoscere che il Partito Democratico è sconfitto. Ma sconfitto non significa morto. L’opposizione non è una fase patologica della vita di un Partito, ma assolutamente fisiologica. Rappresenta gli anni in cui si possono ridiscutere le idee, i gruppi dirigenti, le modalità di organizzazione per sintonizzarsi meglio sulle esigenze della parte di Paese che si vuole rappresentare e riproporsi alle elezioni successive. Sarebbe utile se il Partito Democratico (o almeno la sua futura leadership) prendesse dei chiari impegni a non tradire la volontà del Paese impegnandosi pubblicamente e sin da subito, in caso di crisi politiche della prossima maggioranza, a non accettare alcun tipo di soluzioni “tecniche” “balneari” o similari. È quello che è successo nelle principali esperienze di Governo socialiste europee contemporanee (tutte di successo peraltro), non c’è motivo per cui non possa accadere anche da noi. 

Acquisito il fatto che il PD non è morto, ma è sconfitto, e che si propone di tornare alla guida del Paese tramite le elezioni nella futura XX legislatura, sarebbe importante richiedere alla fase congressuale prossima ventura “ipocrisia zero”. Le giuste dimissioni annunciate da Letta, stanno creando però lo spazio per il rilancio della finta palingenesi: una babele di promesse di cambiamento totale sotto forma di candidature, che nascondono un più prosaico “mercato delle vacche” in vista dell’arrivo dei candidati veri e propri con cui trattare la propria politicamente lucrosa ritirata. La tentazione è forte, perché la sconfitta è piena, e la paura di essere arrivati a fine corsa anche per chi si è salvato nelle urne è comprensibile, ma andrebbe sdegnosamente respinta. La linea politica di Letta, in queste elezioni, era quella di tutti. La riprova sta nei giornali, nelle dichiarazioni e nell’assenza di voti contrari nelle sedi proprie del Partito. Al gruppo dirigente che nel corso degli ultimi anni ha guidato il PD va chiesto invece di fare una cosa nuova: non tanto l’analisi del voto 2022, che i meccanismi della legge elettorale e la distribuzione geografica rendono chiari e lampanti, quanto una “storia del voto” del PD dal 2008 al 2022. Sarebbe davvero utile ed un elemento di grande chiarezza capire “quale storia” il gruppo dirigente del Partito Democratico di questi quattordici anni (pressoché identico a sé stesso), racconta per spiegare il trend in relazione alle proprie proposte politiche e scelte di Governo. Noi da parte nostra siamo sicuri di una cosa: non è mai stato un problema di comunicazione o di comprensione. Gli italiani, proprio perché hanno capito perfettamente il contenuto delle proposte del PD, hanno preso determinati e costanti atteggiamenti. 

Un fronte su cui invece sarebbe doveroso condurre delle novità a stretto giro, per poter poi svolgere un Congresso fruttuoso, riguardano il piano organizzativo del Partito. Nel corso di questi anni il Partito Democratico ha sviluppato una tendenza molto preoccupante all’asfissìa interna. Chiusura delle sedi, costi delle tessere innalzati, democrazia a livello periferico a corrente alternata. Dopo l’ultimo Congresso del Partito è stato finanche triplicato il numero di firme (da 1500 ad un numero variabile tra 4000 e 5000 da raccogliere in almeno 12 Regioni) che vanno raccolte per potersi presentare alla prima fase del Congresso del partito, quella rivolta ai soli iscritti. Per fare un buon Congresso e preparare una fruttuosa stagione di opposizione il Partito Democratico ha bisogno di riaprire con criterio i confini della propria militanza. Sarebbe utile superare la fase delle Convenzioni ed al tempo stesso fare delle primarie in cui la partecipazione sia legata all’iscrizione al Partito Democratico ad un costo ragionevole ed uguale per tutti. In una interessante analisi pubblicata prima del voto è stato reso pubblico un elemento caratteristico del PD: si tratta del partito in cui è vistosamente maggiore la quantità di voto che dipende dalla sua “macchina” (gli amministratori periferici, il corpo del partito). Questo elemento incide per più dell’80% nella scelta di votare PD. Questo elemento va rafforzato ed ampliato evitando quella peculiare di forma di partito all’americana italianizzato che riassume le peggiori caratteristiche dei partiti di tradizione continentale ed americana con l’effetto di creare delle oligarchie intoccabili (fino al prossimo voto). 

Per concludere proviamo a dare noi una prima interpretazione del trend del Partito Democratico dal 2008 ad oggi. Per chi scrive l’obiettivo politico del prossimo futuro è la sostituzione del programma del Lingotto con un nuovo programma fondamentale del Partito. Secondo noi la crisi del PD deriva dal fatto che, indipendentemente dai gruppi dirigenti che si sono succeduti, la proposta al Paese non si è mai discostata dai fondamenti ideologici del Lingotto. Sono stati prodotti adattamenti temporanei, che hanno preso nomi diversi (Agenda Monti, Rottamazione, Agenda Draghi) ma invece di riconoscere e sostituire quella impostazione il Partito Democratico è rimasto identico a sé stesso nella proposta al Paese.  Anche la burrascosa e sempre più avvilente vita interna del PD deriva da questo. Se tutti i gruppi dirigenti non sanno scostarsi da quella linea, cioè se non sanno costruire nuovo consenso, con il progressivo rinsecchirsi del consenso al Partito diventa inevitabile l’abbrutimento della vita interna del PD la sua chiusura in feudi. È la perdurante adesione all’idea di Paese che sprigionava dal Lingotto che sta producendo il rinsecchimento del consenso al PD. Quella idea di Paese oggi se la possono permettere solo una parte dei ceti medi urbani e infatti solo quelli sono rimasti a votare PD.  Quella proposta non tiene conto degli effetti dei grandi processi trasformativi in atto nei Paesi a capitalismo avanzato, è positivistico nella fiducia sui meccanismi di mercato al più da correggere a valle, e non riesce neanche a considerare (figurarsi a invertire) le enormi diseguaglianze sociali prodotte come in ogni fase di trasformazione del capitalismo che si innestano su quelle pre-esistenti come il divario Nord Sud. Non è tanto una questione di mancanza di strumentazione a disposizione. I dirigenti del PD, specie nella fase in cui hanno fatto parte dei Governi, non hanno saputo utilizzare ciò che c’era per produrre un diverso modello di sviluppo, da ultimo anche con gli strumenti post pandemici. Da partito nato con il compito di unire i riformismi italiani e tenere assieme ceto medio e popolare il Partito Democratico si è trasformato in un soggetto rappresentante di una sola parte di questo universo. Lo dimostra peraltro anche la rinnovata distribuzione dei voti. Mai nella storia della Seconda Repubblica ci sono stati così tanti voti espressi alla sinistra del PD o dei suoi partiti progenitori.

In questi termini il prossimo Congresso del PD si pone come un crocevia in cui sono presenti tre possibili uscite. Confermare (nella sostanza) la natura di Partito del Lingotto significa definire in termini probabilmente non più emendabili il PD come partito delle ztl. A noi pare una scelta miope anche e soprattutto perché i processi trasformativi in atto non sono per nulla terminati ed i confini delle ztl sono e saranno in progressivo restringimento.

Non pare altresì convincente neanche la soluzione di un generico abbraccio (anche in forma di scissione, federazione o soluzioni similari) con il Movimento 5 stelle, trasformatosi nel frattempo in una sorta di Lega Sud. L’aspirazione ad un rapporto con il Mezzogiorno d’Italia per un partito che ha al proprio interno le due correnti principali del meridionalismo italiano non può neanche per idea essere delegata al rapporto con un altro partito, pena la perdita di qualsiasi possibilità di essere considerato un Partito di “sinistra” dato che nessuna questione può dire di essere più rilevante per la configurazione dell’identità e del ruolo del Paese quanto quella meridionale. Anche oggi.

Per non compiere quelli che secondo noi sono due errori strategici, non correggibili, il PD dovrebbe abbandonare velocemente qualsiasi rapporto con le vecchie idee del Lingotto e sostituirle con un rinnovato autonomismo culturale. Per governare la attuale fase di sviluppo del capitalismo serve Governo forte, nazionale e sovranazionale, un’idea nuova di unità del Paese e di sviluppo del Meridione, e nessuna sudditanza verso le tecnostrutture. In questi anni, in un rapporto del tutto finto con la politica, si sono prodotte tonnellate di idee, analisi, proposte in questo senso. Gli anni di opposizione possono servire per sperimentare, approfondire, e sottoporre al confronto con gli italiani. C’è anche lo spazio elettorale per farlo dato che ben 6 milioni di elettori hanno abbandonato il Movimento 5Stelle votato nel 2018 senza per questo finire nel calderone della destra.   

In occasione del Congresso del 2018, provammo a presentare alle convenzioni del PD una proposta diversa da quelle principali in cui si diceva: il nostro principale obiettivo è quello di riconnettere il tessuto sociale di questo Paese. In questi anni abbiamo vissuto in un meccanismo che ha troppo spesso generato contrapposizioni tra: poveri italiani verso poveri migranti; giovani disoccupati verso anziani pensionati; lavoro contro ambiente; grandi investitori contro piccoli risparmiatori. NOI VOGLIAMO UNIRE CIÒ CHE INTERESSI DI PARTE HANNO SPEZZATO dobbiamo ripartire dal presupposto che la Politica può tutto. Non esistono limiti se non quelli determinati dal progresso tecnologico e dalla capacità reale di mobilitazione di persone e capitali.” Riteniamo che il succo di quel messaggio sia ancora del tutto valido.

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