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martedì , 19 Marzo 2024

Sinistramente Sicilia

Se fino a marzo 2020 l’idea di cambiamento era più associabile al suo desiderio, dopo nove mesi esso appare, a prescindere da ciò che desideriamo, come un processo inevitabilmente in atto, oltre che, soprattutto, come opportunità.

Benché i luoghi comuni siano comunque indicatori di una verità diffusa, per introdurre un cambiamento reale bisogna partire da un’analisi reale del mondo in cui siamo calati. Per l’esattezza, ci ritroviamo in un mondo “appeso”, una terra di mezzo tra ciò che era prima e ciò che si staglia all’orizzonte. Quella strettamente attuale è una realtà dinamica e, in quanto tale, difficile da fotografare e che non merita giudizi immediati.

Però possiamo provare a scattare un’istantanea del profilo socio-economico siciliano di un anno fa. Non per conservarla tra le vecchie foto di famiglia, ma per rivolgere alla questione siciliana lo sguardo attento che merita, andando oltre il dire ricorrente per trovare una nuova puntualità e concretezza. Sì, “questione siciliana”; scopriremo infatti che continuare a parlare di “questione meridionale” risulti come volare ad una quota eccessivamente elevata, senza accorgersi che vi sono almeno due meridioni riconoscibili da differenti sfumature del paesaggio.

Cominciamo, dunque, ad abbassarci. Lo faremo con l’ausilio del “Report Regione Sicilia”, redatto da Unioncamere nel 2019.

Chi sono i siciliani

Al 2017, la popolazione siciliana si attestava a 5.026.989 abitanti, sull’onda di un trend discendente (-0,6% rispetto al 2016). Tale trend è determinato da un saldo naturale e un saldo migratorio negativi (rispettivamente -0,26% e -0,33%). Dati abbastanza in contrasto con le medie nazionali (-0,33% e +0,14%); da un lato si ha un saldo naturale più alto, grazie a una popolazione più giovane rispetto alla media italiana (43,7 anni contro 45,2), dall’altro lato si ha un saldo migratorio negativo (a fronte di quello positivo italiano), generato da un flusso migratorio di siciliani verso le regioni del nord che non è compensato dal flusso migratorio in entrata (“La Sicilia è solo di passaggio”). Diretta conseguenza di questo fenomeno è la differenza marcata tra l’incidenza degli stranieri sulla popolazione siciliana e quella sulla popolazione italiana (3,8% e 8,5%). Le comunità straniere più numerose in Sicilia risultano essere rumeni, marocchini, tunisini, Sri Lanka (singalesi e tamil).

Cosa fanno

Per quanto riguarda invece il tessuto produttivo, nel 2018 sono state censite 464.784 imprese siciliane, con una densità di 9,2 imprese ogni 1000 abitanti, inferiore sia al dato nazionale (10,7) che a quello meridionale (9,8), ma con un tasso di crescita del 0,7% annuo, superiore a quello nazionale (0,5%). Oltre che per crescita numerica, il tessuto produttivo siciliano si rafforza anche in termini organizzativi: sempre più imprese assumono la natura giuridica di società di capitali, spesso spinte dalla difficoltà nell’ottenere credito dall’esterno.

In questo panorama, meritano un focus maggiore le imprese a conduzione femminile, straniera e giovanile. Le prime, guardando all’economia siciliana nel complesso, appaiono fondamentali per interi settori (servizi alla persona, abbigliamento, alloggi turistici, commercio al dettaglio, agricoltura e allevamento) e costituiscono un quarto delle imprese totali (24,4%, a fronte del 21,9% nazionale). Naturalmente, questo livello è insufficiente, visto che il complemento a uno dice 75,6% di imprese a conduzione maschile. Le seconde si concentrano in settori a bassi valore aggiunto e professionalità e hanno un’incidenza relativamente modesta sul totale, rispetto a quanto avviene in Italia (è intuibile che ciò sia diretta conseguenza dei dati demografici già riportati). Le terze sono protagoniste di un tasso di crescita negativo, dettato da una mortalità elevata. Negli ultimi anni si sono provate diverse iniziative a sostegno dell’imprenditoria giovanile, sia italiane che europee, che, insieme alla sistemica difficoltà da parte delle giovani generazioni di inserirsi nel lavoro dipendente, sono state sprone per avventurarsi nel mondo imprenditoriale. Le cause della fragilità di tale categoria di imprese sono diverse. La prima è il tipo di settore in cui tendono a concentrarsi: ristorazione, pulizia e giardinaggio, sport e intrattenimento, servizi alla persona, commercio al dettaglio; trattasi, dunque, di imprese di piccola dimensione, con un mercato localistico, altamente concorrenziale, a bassa redditività e alto turnover. La seconda è da ricercare nelle già citate spinte motivazionali dei giovani imprenditori, che li portano ad avviare la propria attività senza poter contare sulle adeguate professionalità, capitalizzazione, redditività, accesso al credito.

Un settore che taglia trasversalmente l’economia siciliana e sul quale è giusto soffermarsi è l’artigianato, strettamente collegato al turismo e che costituisce una fetta decisamente importante del settore manifatturiero. Ciononostante, l’artigianato siciliano è in crisi per via della riduzione dei consumi interni (dato un mercato di sbocco precipuamente localistico) e della struttura del settore stesso a paragone con quello dell’industria manifatturiera.

Fregata “Sicilia”

Questa imbarcazione battezzata “Sicilia” non naviga in mari interni, ma nell’oceano della globalizzazione. Per scoprire quali acque solca ci servono coordinate più larghe di quelle nazionali, quantomeno continentali. Un’operazione di benchmarking con le altre regioni europee può aiutarci nella localizzazione.

A livello demografico è importante tenere presenti due fattori: la variazione totale della popolazione e l’indice di dipendenza strutturale. Per il primo, la Sicilia è 228esima su 276 regioni europee con un -3,5% su base annua. Il secondo misura il grado di dipendenza della popolazione non in età da lavoro verso quella in età da lavoro; in questa classifica risulta 152esima (52,6), dove però i posizionamenti migliori sono quelli in basso (meglio avere un basso indice di dipendenza strutturale). Ciò si deve a una popolazione siciliana relativamente giovane rispetto ad altre regioni.

Passando al benessere economico, l’indicatore principale è il PIL Pro-capite, dove si colloca 200esima con un valore di 17.307,70 € (in un cluster di regioni spagnole, portoghesi e greche) venendo doppiata dalla Lombardia (34.984,60 €). Bisogna fare giustizia su questo dato, che in Sicilia presenta una dispersione elevata. Infatti, il PIL dei siciliani risulta fortemente spalmato intorno a quel valore, con il risultato che buona fetta della popolazione si trova in uno stato di deprivazione materiale grave. Per tale stato esiste uno specifico tasso di misurazione, e nella relativa classifica la Sicilia è nona, con il 26,5% della popolazione in condizioni di deprivazione materiale grave.

Strettamente legate al benessere economico sono l’occupazione e l’imprenditorialità. Il dato più eclatante è il tasso di occupazione (40,2% della popolazione in età da lavoro) che corrisponde alla posizione 267. In apparente contraddizione è il tasso di imprenditorialità (unità locali di imprese per 100 abitanti) che con un valore di 4,4 la colloca al 148esimo posto. Si desume che l’autoimpiego costituisca una risposta alle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro.

L’innovazione, che spesso è il vero e proprio traino per la crescita, può essere trattata con la percentuale di PIL speso in R&S (ricerca e sviluppo) ogni anno. La Sicilia è 155esima, spendendo l’1% del PIL, in un cluster di regioni britanniche, italiane, spagnole, polacche, ungheresi. In un mondo che vive la quarta rivoluzione industriale (in cui i big data sono l’oggetto strategico) la banda larga recita un ruolo da protagonista. Anche in questo la Sicilia si colloca a metà (157esima) con una percentuale di famiglie connesse alla banda larga pari al 74%.

Fattori strutturali di sviluppo territoriale

Usiamo il tema dell’innovazione come via d’uscita dallo schema costringente del benchmarking. Essa risulta guidata prevalentemente dal settore pubblico, dove si spende in R&S come nel resto della nazione, mentre il settore privato investe molto di meno rispetto alla media nazionale. In risposta alla difficoltà dei privati nel condurre ricerca, il pubblico può rappresentare l’ambiente protetto dove è possibile sostenere l’innovazione. I due poli universitari di Palermo e Catania svolgono proprio questo compito, specie con i loro incubatori di impresa, dando slancio a molte start-up. Da soli, però, non riescono a sostenere un numero di imprese che possa dirsi adeguato alle aspettative regionali.

La parola “innovazione” è un richiamo immediato ad altre parole come “crescita” e “sviluppo”. Ma, secondo il report, in Sicilia vi possono essere altri due traini: il turismo e l’internazionalizzazione.

Il turismo siciliano è un fenomeno distinto da quello italiano, innanzitutto per l’origine dei visitatori. La percentuale annuale di stranieri che visitano la Sicilia è inferiore a quella di stranieri che visitano l’Italia. Dal momento che gli stranieri prenotano un numero di pernottamenti maggiore in media rispetto agli italiani (3,34 vs 2,78) gli introiti derivanti dai servizi alberghieri sono inferiori rispetto ad altre regioni. Inoltre, il tasso di turisticità (ovvero il rapporto tra presenze turistiche ed abitanti, 2,9 per la Sicilia) è inferiore rispetto sia al dato del Sud e Isole (4) sia a quello italiano (6,9). Causa di ciò potrebbe essere l’eccessiva stagionalità dei flussi turistici: mentre in Italia, nei mesi non estivi, si registra un tasso di turisticità del 2,3, in Sicilia del 1,1.

Per internazionalizzazione si intende il sistema di relazioni economiche, sociali e culturali gestite a livello territoriale, in un contesto globalizzato. È in questo aspetto che la Sicilia fa fatica ad andare “oltre sé stessa”. Innanzitutto, il dato prominente è quello relativo alle esportazioni, che rappresentano solo l’8% del PIL regionale (11,3% per Sud e Isole e 24,7% per l’Italia). Fortemente legato a ciò è il rapporto fra importazioni nette/PIL (quindi importazioni al netto delle esportazioni sul totale del PIL): Sicilia 24,2%, Sud e Isole 18,4%, Italia -2,1%. Ciò vuol dire che l’Italia riesce a realizzare un surplus della sua bilancia commerciale, mentre il Sud e ancor di più la Sicilia sono decisamente dipendenti dall’esterno. Vi è, dunque, sia un profondo divario competitivo nei mercati extra-regionali fra la Sicilia e le regioni del Centro-Nord, sia in capacità di attrarre investimenti esteri, misurabile con la percentuale di addetti nelle imprese a controllo estero: Sicilia 2,9, Sud e Isole 3,8, Italia 7,6.

Sentieri alternativi

Esistono altri settori e modalità per generare valore.

Se di cultura non si mangia, bisogna chiedersi dove trovano le forze per alzarsi dal letto ogni mattina il 4,3% dei lavoratori siciliani. Un comparto, quello culturale, classicamente definito meno determinante per l’economia, è qualcosa di non trascurabile. In Sicilia il 3,6% delle imprese fa parte del sistema produttivo culturale, che rappresenta il 4,2% del valore aggiunto del totale delle imprese. Tutti dati al di sotto delle medie nazionali (4,7% e 6%) con l’eccezione della provincia di Palermo (4,7%, 5,5% e 5,6% di occupati).

Una modalità differente la procura il tema della sostenibilità ambientale, che non afferisce più soltanto alla sfera dell’etica e della politica, ma in maniera spicciola anche alla sfera economica; l’innovazione si gioca e si giocherà sempre di più in questo ambito e ciò dà una spinta competitiva alle imprese. La Regione, con il 24,6%, è in linea col dato nazionale relativo alla percentuale di imprese che hanno effettuato investimenti green, con l’esempio virtuoso della provincia di Agrigento (29,9%). Mentre, per i cosiddetti “green jobs”, il dato (8,9%) è inferiore a quello nazionale (10,4%).

Infine, non solo come modalità ma anche in qualità di asset d’impresa, bisogna sottolineare il ruolo giocato dal capitale relazionale. Il capitale relazionale ha origine dalla rete di connessioni che l’impresa tiene con i singoli attori sociali, amministrativi, economici del territorio in cui opera; connessioni fondate su forme di collaborazione e partenariato, che comportano responsabilità sociale e creazione di valore condiviso. La misura di questo fenomeno è data dalla percentuale di imprese coesive, che in Sicilia è il 31,1%, nella media nazionale.

L’economia riceve slancio non solamente da tutti i fattori che abbiamo esaminato, ma anche da altri, relativi al contesto sociale, politico e istituzionale. Il seguente grafico permette una visualizzazione chiara e immediata.

Tutto molto sinistro

A questo punto della lettura, il Libero Arbitrio ci concede due strade: praticare la tanatosi (dal greco “thanatos”, morte: comportamento assunto da alcune specie animali che consiste nella simulazione dello stato di morte come risposta al pericolo) o provare a dare concretezza a questi minuti spesi davanti allo schermo. Scegliamo la seconda.

Se le criticità del sistema Sicilia formano una lista così lunga, per simmetria abbiamo anche una lunga lista di opportunità.

Senza ulteriori indagini, il problema occupazionale assomiglia tanto, troppo, a Godzilla che si muove per le strade di New York. In questo caso, il problema può essere abbattuto da una riforma strutturale del settore pubblico che deve andare ben oltre la generazione di posti di lavoro fine a sé stessa e che, altrimenti, assomiglierebbe a un palliativo. Bisogna identificare il settore pubblico come vero motore del paese, come sistema per mettere insieme risorse e capacità da indirizzare verso il raggiungimento dell’interesse generale, premiando così la collettività sia in termini di occupazione che di welfare. Troppo a lungo abbiamo pagato un atteggiamento che rema in direzione opposta, che tratteggia il pubblico impiego come stipendificio, come simbolo di inefficienza all’italiana, come luogo dove le professionalità non vengono premiate e valorizzate, come covo di “boomers”. Nel suo duplice scopo, la macchina statale ha evidentemente bisogno di ringiovanire e riqualificare i propri organici, che da oltre vent’anni sono stagnanti. Per ricominciare ad attrarre i giovani siciliani, si può sostenere con nuovi progetti il fenomeno del “South Working” che questa pandemia sta portando in dote, che permetterebbe di reintegrare nella società siciliana giovani competenze, spesso altamente qualificate, che, inoltre, tornerebbero a spendere in Sicilia invece che fuori regione. Contemporaneamente, vanno anche riaggiornate le metodologie e le modalità con cui si mette in funzione la macchina pubblica, per condurre il paese in questa quarta rivoluzione industriale.

Rivoluzione che parte dall’innovazione: anche qui la risposta deve essere guidata dal pubblico. In Sicilia, oltre che accrescere il servizio di supporto alle start-up (magari con incentivi finanziari, formazione imprenditoriale e spazi idonei condivisi), ci sarebbe bisogno di una domanda di innovazione da parte dello Stato, magari in connubio con una stagione di opere pubbliche che generino la domanda (pre-commercial public procurement). La possibile spinta all’innovazione, unita con il marchio “Made in Italy”, potrebbe dare uno sbocco internazionale ai prodotti siciliani.

Partendo da ciò che è già presente, bisogna destagionalizzare i flussi turistici valorizzando il patrimonio dell’entroterra siciliano, promuovendo anche all’estero l’offerta turistica della Trinacria. Nella lista delle priorità come Roma, Firenze, Venezia e Napoli, gli stranieri potrebbero debitamente aggiungere la Sicilia; ma bisognerebbe anche aiutarli nel raggiungerla fisicamente, potenziando i trasporti.

La situazione siciliana appare molto “sinistra”. Lo stato attuale delle cose, per tanti versi, sembra un’opera maligna, mentre le prospettive di ripresa pendono tutte a sinistra.

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