Perché il socialismo non può non essere antispecista
Dario Manni – Climate Save/Animal Save/Fridays For Future Roma
Devo confessare che, parlando del rapporto fra socialismo e antispecismo, non sarò affatto originale. La letteratura sul tema, anche se lungi dall’essere nutrita, è infatti un riferimento ineludibile e, a dir la verità, molto puntuale. In questo modesto contributo mi limiterò quindi a porre le basi della questione senza alcuna pretesa di innovazione, con l’unico obiettivo di convincere il lettore socialista-comunista specista della ineludibilità dell’avvento di un socialismo antispecista. Anche così, credo che il compito che mi attende sia necessario almeno quanto difficile.
Partiamo dalle definizioni. Cos’è lo specismo, cui l’antispecismo, per definizione, si oppone? L’allora giovane filosofo morale Peter Singer, ora settantaquattrenne titolare della prestigiosa cattedra di bioetica di Princeton, nel 1975 lo definiva così: “un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri delle altre specie”. Il testo della citazione, ormai un classico della letteratura antispecista, è Liberazione animale. In questo libro notevolmente innovativo per l’epoca, Singer si dedica da un lato a raccontare le pratiche standard delle industrie che basano il proprio business sullo sfruttamento e sull’uccisione degli altri animali, come l’industria zootecnica e gran parte di quella chimico-farmaceutica; dall’altro, a confutare gli “argomenti” dietro a tale sfruttamento. Dice, per esempio, il nostro: “non occorre vincolare la causa dell’eguaglianza al particolare esito di un’indagine scientifica. La risposta appropriata da dare a chi sostenga di aver trovato la prova di un fondamento genetico per le differenze di abilità fra le razze o i sessi non consiste nel rimanere aggrappati all’idea che la spiegazione genetica debba essere sbagliata, a prescindere da qualsiasi prova del contrario; consiste invece nel chiarire che la rivendicazione dell’uguaglianza non dipende dall’intelligenza, dalle capacità morali, dalla forza fisica o da altri simili dati di fatto. L’eguaglianza è un’idea morale, non un’asserzione di fatto.” E, con un esempio diventato ormai parte dell’armamentario teorico antispecista, continua: “se il possesso di un superiore livello di intelligenza non autorizza un umano a usarne un altro per i suoi fini, come può autorizzare gli umani a sfruttare i non umani per lo stesso scopo?”. “Lo autorizza proprio perché parliamo di esseri umani e non di animali!”, obietterà lo specista ideale (con tanto di dicotomia umano-animale a corredo). “Ed ecco che si cade nello specismo!”, risponderebbe a ragione Singer, cioè nell’attribuzione arbitraria di maggior valore intrinseco a un individuo nei confronti di un altro sulla base della specie di appartenenza o, come nella fallacia logica nota come “fallacia naturalistica”, nell’attribuzione di valore morale a un fatto fisico, di per sé non consequenziale.
Da un punto di vista filosofico, Singer ha ragione da vendere. Non c’è modo di giustificare razionalmente quello che facciamo agli altri animali. Dietro alle ormai trite obiezioni sulla “catena alimentare” o sulla necessità di proteine animali, si legge il tentativo (purtroppo ancora oggi trasversale alle identità politiche più diverse) più o meno disperato di naturalizzare e normalizzare ciò che è invece fenomeno storico e socio-culturale di assoluta rilevanza economica. Terminata la pars destruens del discorso antispecista e smontate le obiezioni più classiche (per la trattazione delle quali esiste ormai un profluvio di materiali online, cui rimando il lettore; un testo piacevole per chi volesse cimentarsi in una lettura filosofica e più sistematica sul tema è Gabbie Vuote, di Tom Regan), resta tuttavia da individuare quali siano, in positivo, i confini del principio di eguaglianza. Posto che tale principio vada esteso agli altri animali, infatti, fin dove dovremmo arrivare? Basterebbe estenderlo ai mammiferi o dovremmo includere anche pesci, anfibi, uccelli e rettili, fino ad abbracciare tutto il mondo dei vertebrati? E, in questo secondo caso, il mondo dei vertebrati esaurirebbe la nostra prescrizione morale o essa dovrebbe riguardare anche molluschi, crostacei, insetti e altri invertebrati? Dovremmo estendere il principio di eguaglianza al mondo vegetale e al mondo inanimato? Senza soffermarci sulla risposta singeriana al problema, basata su un sensiocentrismo utilitarista mitigato dall’etica della compassione, appare evidente che la domanda circa i limiti del principio di eguaglianza apra a un mondo di teoria e prassi rivoluzionarie. Qualsiasi estensione di tale principio, infatti, rivoluzionerebbe interi settori economici e strutture sociali, e con essi miliardi di vite animali (umane e non) che in questi settori sono a vario titolo coinvolte, mostrando così il suo volto non solo etico ma anche politico. Ebbene sì, l’antispecismo (e la lotta di liberazione animale che su di esso si fonda), ha un volto politico. “In fondo”, come scrive Massimo Filippi in Questioni di specie, “uno sguardo anche superficiale ai fatturati delle multinazionali agroalimentari e chimico-farmaceutiche -che si stanno progressivamente fondendo tra loro a costituire dei veri e propri monopoli tesi alla gestione completa e globale del vivente-, potrebbe essere sufficiente a mostrare la correttezza di quanto affermato. Alla luce di questa constatazione, chi ancora non fosse disposto a considerare la questione animale una questione politica dovrebbe assumersi il compito di definire che cosa sia la politica”.
Perché, dunque, ancora oggi il movimento per la liberazione animale è considerato (e, talvolta, considera se stesso) come apolitico? E perché è generalmente indifferente o persino avverso a molti attivisti e attiviste di altri movimenti di liberazione, compresi coloro che lottano per una società socialista-comunista? Le ragioni di questo fatto sono molteplici. Per inquadrare il tema dal punto di vista storico, giova innanzitutto ricordare questo passo del Manifesto del partito comunista in cui Marx ed Engels inscrivevano l’animalismo dell’epoca nel socialismo conservatore e borghese: “Una parte della borghesia desidera porre rimedio ai mali sociali per garantire la permanenza della società borghese. Ne fanno parte: economisti, filantropi, umanitari, miglioratori delle condizioni delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficienza, quelli che porranno fine alla sofferenza degli animali, fondatori di società di temperanza, riformatori al dettaglio di ogni forma e colore”. Sia Marx che Engels ritenevano inoltre che mangiare carne fosse un lusso borghese ingiustamente negato al proletariato, ed Engels in particolare era avverso a vegetarismo e antivivisezionismo tanto da scriverne in toni sarcastici sia ne La situazione della classe operaia in Inghilterra, sia ne L’origine della famiglia. Questi giudizi possono aver spinto molti a derubricare l’idea e il movimento di liberazione animale a vezzo borghese, nella migliore delle ipotesi; e a qualcosa di peggio, quando si valuta l’identità politica delle attuali formazioni partitiche animaliste o dei volti noti della politica di mestiere che al momento più rappresentano le istanze animaliste, da Michela Vittoria Brambilla a Silvio Berlusconi che abbraccia un agnello. Del resto, l’impostazione marxista classica, ad oggi superata, è stata storicamente affetta da un fenomeno che possiamo chiamare “riduzionismo di classe”, il quale implica una sottovalutazione delle istanze progressiste altre, seppure non conflittuali con essa, rispetto alla lotta di classe. C’è dell’altro. L’anima del marxismo non è mai stata quella della filosofia morale che ispira l’antispecismo delle origini. Nell’Anti-Dühring Engels scriveva: “Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli”. Per finire, ad oggi il movimento per la liberazione animale, almeno in Italia, è tutt’altro che coeso e tutt’altro che integrato in un più ampio contesto di “critica politica radicale dell’esistente”, per usare un’espressione del già citato Filippi. In seno all’animalismo si annidano non solo movimenti politicamente qualunquisti, ma anche (seppur in misura minore) movimenti ideologicamente vicini alla destra anche estrema. Per una trattazione esaustiva di questo tema rimando a Niccolò Bertuzzi, I movimenti animalisti in Italia. Strategie, politiche e pratiche di attivismo, e all’antologia curata dallo stesso Bertuzzi insieme a Marco Reggio, Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale. Spesso, insomma, sono gli stessi animalisti a rifiutare l’accostamento all’identità socialista-comunista, spinti da avversione politica o da considerazioni di prudenza e calcolo volte a non alienare simpatie alla causa.
Il movimento di liberazione animale sconta un’origine liberal, evidente fin dai testi fondanti del moderno antispecismo, fra cui la stessa Liberazione animale di Singer. Già nel 2002 David Nibert, sociologo statunitense di impostazione marxista, notava a proposito della definizione di specismo come pregiudizio che: “Sociologists tend to use the suffix “-ism” in a more specific way than what is generally meant by those talking about speciesism. Most sociologists consider racism, as well as sexism, classism, and other “isms” to be ideologies. That is, they are neither prejudice nor mistreatment. Rather, an ideology is a set of socially shared beliefs that legitimates an existing or desired social order”. Nel suo ottimo Animal rights/Human rights. Entanglement of oppression and liberation, Nibert continuava così: “Many important works on the liberation of other animals tend to follow this individualistic and psychologically oriented explanation of oppression. In Animal Liberation, for instance,Peter Singer does not offers an explanation for the cause of racism, sexism, or speciesism but primarily suggests that the attitudes underlying them are ethically flawed and should be challenged through education. He does not call into question the social system that promulgates speciesism, although throughout Animal Liberation he repeatedly acknowledges the institutional underpinnings of speciesism”. La buona notizia per un antispecismo intersezionale socialista-comunista è che libri come quello di Nibert (e quello, altrettanto importante per il movimento di liberazione animale, di Carol J. Adams The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory, recentemente tradotto in italiano), hanno aperto la strada al cosiddetto “antispecismo politico”, ovvero a un antispecismo non basato su un approccio individualistico e psicologico ma sulla consapevolezza dei rapporti sociali di potere e di dominio, e sull’ambizione di rivoluzionare quei rapporti. Lo stesso Nibert teorizza lo specismo come ideologia che giustifica l’oppressione degli altri animali e non come pregiudizio che la genera. Alla base dello sfruttamento sistematico degli altri animali non sta, insomma, un generico e vago antropocentrismo (che, pure, agisce indirettamente e implicitamente sulla maggior parte delle persone e dei movimenti di liberazione); sta la lotta di classe e la necessità delle élite di giustificare razionalmente l’oppressione delle minoranze e delle alterità, fra le quali alterità rientra a pieno titolo anche il proletariato dei tempi di Marx, pensato -o almeno presentato- dai capitalisti dell’epoca come “naturalmente” inferiore rispetto alle buone maniere e alla superiore civiltà della classe capitalista.
Detto che l’antispecismo è arrivato negli ultimi venti anni ad avere una dimensione politica di tutto rispetto, resta da domandarsi se il socialismo-comunismo debba oggi fare i conti con l’antispecismo e includerlo nel suo movimento di trasformazione dell’esistente. Nel suo Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, tramite un lavoro di analisi e comparazione di fonti etnografiche, archeologiche e paleontologiche, il filosofo marxista antispecista Marco Maurizi ricostruisce il quadro storico della nascita dello specismo evidenziandone il carattere classista. “Verso la fine del neolitico”, scrive Maurizi, “nacquero le prime società divise in classi, in cui pochi vivevano del lavoro di molti, sfruttando al tempo stesso uomini e animali. Lo specismo nasce qui, è in realtà, un prodotto della società di classe in entrambe le sue forme: come prassi e come ideologia. La domesticazione degli animali -che fu un atto di violenza nei loro confronti- fu una sciagura che non tornò a vantaggio dell’uomo, perché creò differenze sociali che permisero la nascita delle gerarchie politiche e religiose. Dal momento in cui queste si imposero […] lo sfruttamento animale andò a loro vantaggio […] furono poi le stesse élite politiche e religiose a creare l’idea della natura divina dell’uomo, ovvero della radicale differenza tra uomo e animale. E ovviamente ciò non tornò a vantaggio dello schiavo -che era anzi egli stesso visto come animale- ma delle élites stesse”. Un esempio di questo peggioramento delle condizioni di vita umane conseguente alla domesticazione di parte degli altri animali fu, secondo Maurizi, l’invenzione dell’aratro a trazione animale in Mesopotamia, che da una parte richiese lo sfruttamento del bue, dall’altra intensificò lo sfruttamento di larghi strati sociali delle società della Mezzaluna Fertile. Nel lungo periodo storico, le società hanno certamente giovato di questa forma proto-capitalistica di accumulazione originaria; ma le innumerevoli schiere di coloro che sono caduti sotto il giogo dell’oppressione e dello sfruttamento racconterebbero una storia diversa da quella delle “magnifiche sorti e progressive” cui già Leopardi non risparmiava sarcasmo. L’allevamento, in particolare, è stato spesso responsabile di sfruttamento e disparità sociali. Nel suo Ecocidio, per esempio, l’economista e sociologo Jeremy Rifkin racconta come in India, dopo il 600 a.C., a causa dell’aumento di popolazione e del progressivo esaurimento della terra, “i signori ariani e i loro sacerdoti brahmani incontrarono progressive difficoltà nel procacciare carne a sufficienza per saziare i propri solidi appetiti e appagare la popolazione sottomessa […] i brahmani continuarono a mangiare carne, mentre il popolo ne rimase privo; questo scatenò una crisi di governo”. Ma già Nibert aveva evidenziato la dinamica ricorrente allo sfruttamento animale: “First, humans compete with other animals for economic resources, including the use of land. Second, exploitation of other animals serves numerous economic ends for human animals, providing sources of food, power, clothing, furniture, entertainment, and research tools […] such exploitation primarily has served to enhance the lives and fortunes of a few at a considerable cost to the many”. La maggior parte dello sfruttamento animale che, seguendo Nibert, migliora le vite di pochi, è rappresentata dall’allevamento, che pure è ancora oggi difeso non solo come fonte di sussistenza per molte comunità impoverite dalla globalizzazione capitalistica e dall’inurbamento selvaggio e derubate delle “loro” terre dai giganti multinazionali (in fondo, è più semplice far accontentare gli oppressi delle briciole che cadono dalla tavola del Capitale piuttosto che rovesciare la tavola stessa); ma è addirittura tutelato, nelle sue forme tradizionali, come patrimonio immateriale dell’umanità. Nonostante la retorica reazionaria della conservazione e della “tutela” dell’allevamento cerchi di preservare lo sfruttamento animale inteso come processo produttivo sostenibile e amico delle economie locali, come afferma Rifkin sempre in Ecocidio gli altri animali, bovini in primis, sono invece “fabbriche di proteine alla rovescia” e in quanto tali del tutto inadatti per un’economia sostenibile. Per allevare un animale occorre, infatti, nutrirlo e abbeverarlo costantemente, attività per la quale oggi destiniamo il 70 per cento circa delle terre coltivabili alla coltivazione di mangimi e un quarto del consumo idrico globale all’abbeveramento degli animali allevati e alla produzione mangimistica. E’ stato calcolato che in media, per avere un kg di carne bovina occorrono 15 kg di cereali e/o legumi e 15.500 litri di acqua. E se oggigiorno aumenta la consapevolezza circa l’insostenibilità etica ed ecologica dell’allevamento intensivo, dove un altissimo numero di animali è concentrato in spazi angusti, malsani e del tutto inadatti alle loro necessità etologiche, occorre dire che l’allevamento estensivo a pascolo, lungi dall’essere una soluzione eco-friendly, costituisce una modalità produttiva insostenibile su larga scala a causa della mancanza di terreni adatti e dell’impoverimento dei terreni di cui le fitte mandrie utili agli allevatori per sostenere il proprio business sarebbero responsabili. Il caso dell’Amazzonia, dove la foresta è stata disboscata principalmente per impiantare nuovi allevamenti e nuove monocolture per gli animali allevati in tutto il mondo, è paradigmatico: l’impianto dei pascoli ha rapidamente esaurito un terreno peraltro inadatto a tale destinazione d’uso, spingendo i cartelli della “carne” (le virgolette sono d’obbligo per iniziare a decolonizzare il linguaggio dall’occupazione specista) che si spartiscono la torta amazzonica sempre più nel cuore della foresta, e gli autoctoni sempre più nelle favelas dei centri urbani che sorgono al posto della vegetazione, o nelle carceri e nei camposanti del Capitale laddove si siano opposti sistematicamente alla depredazione. Per alcuni, la soluzione sembra andare verso una drastica riduzione del consumo di prodotti animali, di modo che si torni a regimi di consumo pre-novecenteschi. Cosa che però risulta difficile da immaginare in un’economia globalizzata priva di direzione centralizzata e in cui Paesi vasti quasi come continenti, come l’India e la Cina, stanno aumentando esponenzialmente il loro consumo in tutti i settori, ansiosi di raggiungere l’american way of life o almeno il suo equivalente in salsa orientale. Ma anche immaginando uno sforzo globale coordinato e sinergico per affrontare il problema ambientale della produzione di “carne” e derivati, che sono fra i principali responsabili dell’emissione di gas climalteranti nell’atmosfera, il poco tempo a disposizione per soddisfare gli obiettivi IPCC di emissioni nette pari a zero entro il 2050 (molto prima, secondo stime più prudenti) sembra evidenziare come il riduzionismo in fatto di produzione e consumo di prodotti animali sia niente più di un formale e inefficace riformismo giocato sulla pelle delle generazioni presenti e future.
“Vista in
sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca
così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere
capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori,
i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti;
sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi
professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza
politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino
alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome,
gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato,
dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i
manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai
malati.
Solo sotto
tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria,
sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo
dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta
dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori
semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più
grande del mondo […] Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della
terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza
degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la
disperazione degli animali.
Questo
edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle
finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo
stellato.” Questo brano del filosofo neo-marxista della Scuola di Francoforte
Max Horkheimer, contenuto nel suo Crepuscolo,
è ormai piuttosto in voga presso gli attivisti e le attiviste per la
liberazione animale, e come tutto ciò che è in voga ha subito una
trasformazione in senso commerciale e quasi da pop-culture, in cui l’analisi della società capitalistica è
subordinata all’utilizzo strumentale del passaggio sul tremendo sfruttamento
degli altri animali. Preso nel suo contesto originario, invece, il brano
suggerisce qualcosa di interessante sulle possibilità di incorporare le istanze
antispeciste in un impianto teorico marxista (nonostante ciò non fosse intento
esplicito dell’autore), poiché da un lato allarga l’analisi del capitalismo
allo sfruttamento degli altri animali, illuminando di conseguenza lo
sfruttamento della numerosa manovalanza umana impiegata nel campo; dall’altro,
estende la considerazione circa il dolore e le sofferenze derivanti dallo
sfruttamento stesso ai miliardi di altri animali allevati e uccisi ogni anno.
Eppure i motivi per i quali la liberazione animale dovrebbe riguardare il
socialismo-comunismo sono anche altri e, da un certo punto di vista, più
profondi. Maurizi scrive che l’antispecismo storico-politico “pone all’origine
di ogni forma di dominio il sorgere in seno alla coscienza umana della
distinzione tra spirito e natura (cosicché la dominazione su animali, donne,
popolazioni straniere ecc. è, di volta in volta, giustificata in quanto i
dominati vengono identificati con il principio “inferiore” della natura)”. E se
la nascita di questa distinzione favorisce forme di controllo dei fenomeni
fisici e di un mondo “naturale” inteso sempre più come distinto dal mondo
“umano” -inizialmente ristretto al gruppo tribale e poi via via più vasto a
seconda del grado di sviluppo sociale-, tale controllo viene agito principalmente
dai gruppi dominanti che, rendendo la società nel suo complesso sempre più
gerarchica e la sua organizzazione sempre più centralizzata, “domesticano” non
solo gli altri animali ma anche l’animale umano. Così, scrive Maurizi, “se il
borghese non può vedere che la distruttività del capitalismo è prodotto del
dominio di classe, il marxismo specista non può vedere che la distruttività
della civiltà è prodotto del dominio sulla natura”. La buona notizia è che il
socialismo-comunismo non ha nessuna necessità assoluta e intrinseca di essere
specista, né di appoggiare a qualsiasi titolo lo sfruttamento animale. “I beni
e i mezzi produttivi determinati delle società classiste finora esistite”,
scrive ancora Maurizi, “costituiscono solo aspetti
fenomenici di un processo storico che ha la propria reale essenza nella lotta intestina della società e che qui trova
le ragioni del proprio superamento definitivo. L’animale, sia esso ridotto a merce o asservito come mezzo di produzione, è un ingranaggio
della società di classe che aspetta, come altri, la propria ridefinizione in
una società socialista […] L’assoggettamento
dell’animale non rientra nella storia della libertà dell’uomo ma in quella
della sua stessa schiavitù. Di conseguenza, la domesticazione animale non
è, in senso assoluto, necessaria alla
libertà umana. Lo è stata relativamente
perché ha reso possibile la lotta di classe e, indirettamente, ha fatto sì che
la società umana divenisse cosciente di sé e potesse proiettarsi oltre l’orizzonte
della società classista”.
Al termine di questa trattazione della questione animale nell’ottica del socialismo-comunismo, necessariamente incompleta ma, mi auguro, di qualche utilità per il lettore meno informato sull’argomento, giova tenere a mente un ultimo aspetto che può rivelarsi essenziale al fine del successo della lotta. Ogni forma di dominio, capitalismo incluso, si è fondata e si fonda sulla divisione del fronte degli oppressi, la cui stessa formazione è sistematicamente combattuta dai gruppi al potere. La lezione di Marx sull’esercito proletario di riserva insegna che il Potere genera conflitti intra- e interclassisti al fine di preservare se stesso dall’unione delle forze dominate. Questo è vero anche per ciò che riguarda lo specismo, a difesa del quale si ergono le lobby dello sfruttamento animale, finanziandolo tramite la pubblicità martellanti sulla cultura dell’hamburger e sull’inevitabilità della sperimentazione animale, sul ruolo educativo degli zoo e su quello salvifico dell’industria dei pets, e facendo pressioni affinché le istituzioni sovvenzionino i grandi produttori spesso riuniti in monopoli. Diverse ricerche hanno ormai evidenziato il ruolo dei mass-media nella diffusione della vegafobia, ovvero la paura del veganismo, e migliaia di articoli ironici o apertamente ostili nei confronti dei vegani e dell’alimentazione vegana sono lì a dimostrazione dell’ottimo lavoro svolto nell’assuefare le coscienze al dileggio e all’ostilità nei confronti di una forma pratica di antispecismo. Le pubblicità sono piene di animali umanizzati, che sorridono e offrono il proprio corpo al coltello del macellaio, felici di essere utili al padrone umano. I “nuovi”, servizievoli schiavi animali sono lì a mitigare la frustrazione delle classi umane oppresse, illudendole di avere il potere di mangiare “cosa” si vuole mentre i loro acquisti vengono condizionati e indirizzati verso scelte di consumo pre-determinate. La “tradizione”, l’abitudine e la pigrizia di molti animali umani alienati ed estraniati dalla società dei consumi fanno il resto, perpetuando uno sfruttamento numericamente incomparabile rispetto a qualsiasi sfruttamento umano. E’ vero, come ha osservato qualcuno, che gli altri animali non fanno la rivoluzione, e dunque non sono considerabili come una classe in lotta (seppur individualmente facciano il possibile per sottrarsi allo sfruttamento e manifestino solidarietà intra- ed interspecifica nei confronti degli altri individui sfruttati). Ma la loro voce, che del resto basterebbe tendere l’orecchio per sentire uscire alta e disperata dai macelli, dagli allevamenti, dai laboratori di vivisezione, dai circhi e dagli altri luoghi del dominio umano sugli altri animali, è trasmessa e amplificata dagli attivisti e dalle attiviste per la liberazione animale, schiera eterogenea ma sempre più operante e tanto più diffusa quanto più aumenta la sensibilità comune nei confronti degli altri animali. L’animalismo odierno, se pure di animalismo generico si possa ancora parlare senza il rischio di non apprezzare le differenze interne al mondo animalista stesso, non è più quello dell’epoca di Marx e Engels. Non è un socialismo conservatore, non è un pedante moralismo né un’espressione accademica da intellettuali liberal. Non è neanche un fenomeno borghese utile come lavanderia per coscienze sporche o passatempo per persone annoiate, disilluse e un po’ misantrope. E’, come ho avuto modo di scrivere più su citando la bella espressione di Massimo Filippi, critica politica e radicale dell’esistente. Che una moderna visione socialista possa legittimamente e opportunamente fondare le sue istanze sull’identica riproduzione di rapporti di produzione propri della società di classe, chiudendosi alle rivendicazioni antispeciste del movimento di liberazione animale, sarebbe quindi un tragico errore di valutazione storica. L’ennesimo, nella lunga lista delle valutazioni sbagliate che hanno generato i molteplici ritardi storici che i movimenti e i partiti socialisti-comunisti hanno scontato e scontano ogni giorno sotto forma di un Capitale sempre più forte, sempre più ingiusto, sempre più -apparentemente- invincibile.