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venerdì , 19 Aprile 2024

Scusaci, Silvia



Di Michael Egidi

Non so voi, ma a me capita, quando incrocio lo sguardo di una persona che sorride, di fare altrettanto.

E tale reazione diviene ancor più ineluttabile, quando quel sorriso è pieno e rassicurante, come quello di Silvia Romano.

Evidentemente però, non è così per tutti.

Un numero eccessivo di cittadini (e per quanto mi riguarda, l’aggettivo sarebbe stato lo stesso anche se il quantitativo avesse superato 1 cifra), più che dal sorriso esibito dalla giovane mentre si avvicinava a passo svelto ai suoi cari, sono stai colpiti dall’abito che la ragazza indossava: una lunga “tunica” appartenente alla cultura araba e musulmana. E dalla sua pancia leggermente pronunciata, che ha scatenato fin da subito numerose teorie.

La ragazza, recuperata in Somalia, è arrivata in Italia vestita con l’abito tipico del posto da cui è partita.

Pare sia stata lei stessa a confermare la notizia che, a quel punto, stava già facendo il giro della rete: si è convertita all’Islam.

“E quindi?”, direi io, convinto che la spiritualità e il credo (o la sua assenza), siano fatti del tutto personali.

“Ingrata”, è stato invece l’epiteto appiccicatogli addosso da Libero (testata rispetto la quale, la regola del nomen omen, fallisce miseramente), che chiarisce il punto: “Islamica e felice”.

Per i motivi di cui sopra e non solo, sorvoliamo pure sulla tematica della conversione religiosa e su come sia avvenuta, ma quel che irrigidisce davvero di un titolo del genere è quel “felice”, utilizzato come prova accusatoria. Evidentemente, c’è gente a cui, quel sorriso, ha dato fastidio. Quel sorriso è una colpa.

Silvia è tornata a casa, è felice di essere rientrata. Interrogata, ha raccontato di non essere stata maltrattata, di non aver subito violenze, e di essersi convertita spontaneamente. E questo non va bene. Non ne fa una martire della crociata antislamica, non la rende strumento utile alla costruzione di quella continua narrazione basata sulla disumanizzazione dei musulmani (e degli arabi in generale, verrebbe da pensare) in quanto tali, più che dei terroristi.

Silvia non odia, quindi non vale la pena godere della sua liberazione.

E purtroppo non è la prima volta che assistiamo ad una vicenda del genere. Prima di Silvia, ci furono Vanessa e Greta, e innumerevoli altre e altri, immolati sul volgare altare del becero disprezzo per la vita altrui, sempre con lo stesso meccanismo.

All’interno del circolo vizioso attraverso cui politica e mass media hanno creato nel tempo la figura dell’odiatore (da tastiera e non solo), da cui poi dipendono e che devo sfamare con campagne mediatiche sempre più gentiste, affiorano i cortocircuiti più evidenti, sempre gli stessi.

Coloro che si riempivano la bocca di “aiutiamoli a casa loro”, scaricano ora la propria frustrazione su una delle tante ragazze e ragazzi che, ad aiutarli a casa loro, ci sono andati davvero, pur consapevoli dei rischi.

Si torna così a puntare il dito contro le ONG, e il loro essere buonisti per natura. Mai che si elevi una voce fuori dal coro, a rammentarci che tali ONG, come dice il loro stesso nome, esistono poiché gli Stati troppo spesso lasciano vuoto il campo della cooperazione internazionale, e qualcuno, in quel campo, dovrà pur lavorarci se vogliamo raccoglierne i frutti.

Altro tema bizzarro è quello del “quanto ci è costato liberarla”? Come se, in un paese in cui si contano 100 miliardi annui di evasione fiscale, in cui si fanno affari vendendo armi (spesso ai peggiori regimi vicini al terrorismo islamico), in cui si inondano di euro dittatori sanguinari perché tengano lontani dalle nostre “frontiere” i poveracci che fuggono da territori usurpati e distrutti, il problema sia davvero l’aver pagato una qualsiasi somma per restituire a una famiglia italiana la propria figlia, sana e salva.

O forse, il problema dei forcaioli nostrani, è che preferirebbero una diplomazia che spara, rispetto ad una che coopera e raggiunge accordi per salvare vite?

Mi piacerebbe fermarmi qui, poiché gli spunti di riflessione sono già tanti e, sinceramente, demotivanti, ma non posso esimermi dal sottolineare cos’altro è stato riportato a galla da questa vicenda: i peggiori rigurgiti di una cultura misogina e sessista.

Perché, è inutile prenderci in giro, il fatto che Silvia sia una donna sfuggita al ruolo che troppo spesso la nostra società tende a cucire addosso al sesso femminile, quello di compagna e madre, curatrice della casa e della famiglia, adatta solo a determinate mansioni, e ingrata ed egoista quando esce fuori da tale perimetro costituito, ha pesato eccome.

E’ vero, ve lo concedo, siamo il paese delle staffette partigiane, di Anita Garibaldi la guerriera liberatrice, e, fortunatamente, di tanti altri esempi di emancipazione e lotta femminile e femminista. Eppure, ve lo confesso, non posso fare a meno di chiedermi: se a scendere quelle scalette fosse stato Patrick Zacky (cosa che spero con tutto il cuore possa avvenire presto), “l’accoglienza” sarebbe stata la stessa?

Forse sì, perché d’altronde, se questo è il trattamento riservato a chi, dopo 18 mesi passati in balia della volontà altrui, senza poter incontrare i propri cari, senza poter prendere alcuna decisione rispetto alla propria quotidianità e impossibilitata anche a immaginare un futuro, è tornata finalmente alla libertà, è evidente che no, questo periodo in cui siamo #rimastiacasa, non ci ha affatto resi migliori.



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