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giovedì , 18 Aprile 2024

Jean Jaurés, la voce della pace.

A Carmaux, un piccolo paese dell’Occitania, il 15 maggio del 1892 viene eletto sindaco il minatore socialista Jean-Baptiste Calvignac. Nei pressi del paese sorgono gli stabilimenti della Azienda Mineraria Carmaux, nei quali numerosi abitanti del paese sono impiegati per l’estrazione del carbone. Pochi mesi dopo le elezioni il signor Humblot, direttore della miniera, licenzia Calvignac, con la scusa che i suoi doveri istituzionali lo allontanano troppo dal lavoro.

Subito i minatori della fabbrica insorgono, chiedendo la reintegra del sindaco, licenziato per motivi politici. La direzione tuttavia non si muove dalle proprie posizioni.
Qui la nostra storia si potrebbe concludere con uno dei migliaia di casi di ingiustizie locali che hanno riempito la storia della conquista dei diritti dei lavoratori.
Della vicenda si interessò però un ex deputato della regione.

Si chiamava Jean Jaurès. Era nato nel 1859 a Castres, nello stesso distretto Tarn, in una famiglia della classe media. A 26 anni era stato eletto in Parlamento nelle file della sinistra repubblicana, divenendo il più giovane deputato di Francia. Nell’ottantanove aveva invece mancato la rielezione e si era dedicato allo studio e all’insegnamento.

Jean Jaurès si dedicò però anima e corpo alla vicenda di Calvignac, pubblicando una lunga serie di eloquenti articoli sul “Dispaccio del sud”, un quotidiano locale repubblicano.
In breve l’enfasi delle parole dell’ex deputato infiammò gli animi dei lavoratori e elevò la vicenda agli allori della cronaca nazionale.
Nel frattempo il 16 agosto i minatori invadono il giardino della sede della direzione della fabbrica e chiedono le dimissioni di Humblot. Il governo nazionale invia i gendarmi a sedare la rivolta, che si conclude con alcuni operai arrestati. La questione infiamma allora la Francia.

Sotto i colpi della retorica di Jaurès la repubblica sembra schierarsi con i lavoratori. L’allora deputato radicale Clemenceau propone un arbitrato e alla camera approda una proposta di amnistia per i lavoratori arrestati. Lo sciopero continua, fin quando a novembre Humblot e altri alti dirigenti dell’azienda rassegnano le proprie dimissioni e gli operai vengono scarcerati.

Per Jaurès quell’episodio rappresenta molto più di un trionfo, che lo riporterà in parlamento, eletto a grande maggioranza in quello stesso collegio, ma significa la piena immersione nella causa dell’emancipazione dei lavoratori e del proletariato operaio.

Jean Jurès è diventato socialista.

Sei anni dopo, in una giornata di settembre, l’addetta alle pulizie dell’ambasciata tedesca a Parigi sta svuotando i cestini della carta negli uffici. Dentro uno di questi trova i sei pezzi di una lettera strappata senza data e senza firma, indirizzata all’addetto militare dell’ambasciata Max Von Schwartzkoppen. La lettera informa il soldato tedesco di una fuga di informazioni militari segrete inerenti le postazioni d’artiglieria francesi.
Le mani dell’addetta delle pulizie erano in realtà quelle di un’agente del controspionaggio francese, che riportò immediatamente la notizia.
Subito viene avviata un’indagine interna per scovare la talpa. Il colpevole viene presto identificato nel capitano d’artiglieria Alfred Dreyfus, di origine ebraica e alsaziana. Viene paragonata la calligrafia della lettera con quella di Dreyfus e notata la somiglianza il capitano viene tratto in arresto.

Di lì a pochi giorni il caso esploderà nel dibattito pubblico nazionale e verrà istruito il processo.
In Francia non era ancora del tutto sopita la sconfitta nella guerra Franco-Prussiana del 1870 e la disfatta di Sedan, che avevano consegnato i territori dell’Alsazia allo Stato tedesco. Il caso Dreyfus, come ci raccontano sovente i manuali scolastici, fu la scintilla che infiammò l’animo revanscista, nazionalista e antisemita che latente covava in Eruopa.

L’opinione pubblica francese si divise nettamente sulla colpevolezza del capitano d’artiglieria. Mentre la destra nazionalista ne invocava la condanna, un parte del paese si rendeva conto dell’assoluta mancanza di prove. Tra i numerosi difensori di Dreyfus ne ricordiamo maggiormente due.
Lo scrittore Emile Zola, che fondando un modo di dire, pubblicò il suo famoso editoriale dal titolo “j’accuse”.

Il secondo è un certo deputato di nostra conoscenza. Inizialmente persuaso della colpevolezza di Dreyfus, Jean Jaurès irrompe nel dibattito pubblico con tutta la forza della sua eloquenza. Anche in contrasto con l’opinione socialista, per cui le sorti dei un militare alto borghese non dovevano essere affare del proletariato. Quando Dreyfus fu condannato e incarcerato in un’apposita cella costruita sul modello di quella realizzata per Gaetano Bresci, Jaurés scrisse: “Se Dreyfus è stato condannato illegalmente e se, come dimostrerò presto, è innocente, egli non è più un ufficiale o un borghese: è spogliato, dall’eccesso di sfortuna, di tutta l’appartenenza classe; c’è solo l’umanità stessa, al più alto grado di miseria e disperazione che si possa immaginare.[…] Possiamo, senza contraddire i nostri principi e senza fallire nella lotta di classe, ascoltare il grido della nostra pietà; possiamo nel combattimento rivoluzionario mantenere viscere umane; per rimanere nel socialismo, non dobbiamo fuggire dall’umanità.”

L’emancipazione del proletariato non poteva ridursi per Jaurès alla sola lotta per miglioramento delle proprie inumane condizioni di vita, ma doveva diventare esportazione dell’umanesimo in ogni piega della società. Ma soprattutto vedeva in quella condanna l’esplosione prossima dei peggiori sentimenti dell’animo umano.

La potente difesa di Dreyfus portò il deputato a divenire uno dei leader più noti ed importanti nel paese. Il nascente movimento socialista era però più che mai diviso.
Fu nel 1905 che su impulso di Jean Jurès nacque la “Sezione francese dell’Internazionale dei lavoratori”, il movimento che riunì tutte le sigle socialiste e comuniste di Francia. Essa divenne nel 1969 il Partito Socialista francese che ancora occupa gli scranni dell’Assemblea Nazionale.
Quel che accadde negli anni successivi, è noto a tutti. Il nazionalismo montante conducesse l’Europa sulla via della Grande Guerra. Eppure anche in quell’occasione, nei mesi precedenti allo scoppio del primo conflitto mondiale, una voce fuori dal coro si levò.
Era la voce di Jean Jaurès, era la voce della pace.

Si tratta probabilmente della battaglia più ardente, solitaria ed eretica della vita del deputato socialista. Si profuse incessantemente nella ricerca di una soluzione diplomatica alle controversie internazionali. Arrivò ad organizzare un movimento transafrontaliero pacifista tra francesi e tedeschi. Propugnò fino alla fine il suo grande sogno di un mondo in pace, che impieghi le sue risorse per costruire invece che per distruggere. Non a caso scelse in nome del giornale che fondò e diresse: “L’Umanità”.

Non esisteva però per Jaurès una pace scevra dalle conquiste sociali e dalla rivoluzione della società. Vedeva infatti nella natura del capitalismo l’inevitabile sopraggiungere della guerra. Nel 1895 aveva detto alla Camera:
“Signori, c’è solo un modo per abolire la guerra tra i popoli, è abolire la guerra economica, il disordine della società attuale; è quello di sostituire alla lotta universale per la vita – che si traduce nella lotta universale sui campi di battaglia – un regime di armonia e unità sociale. Ed è per questo che se non guardiamo alle intenzioni sempre vane, ma all’efficacia dei principi e alla realtà delle conseguenze, razionalmente, profondamente, il Partito Socialista è, nel mondo, oggi, l’unico partito della pace”.

Paradossalmente, il più strenuo difensore della pace in Europa, era anche un appassionato di strategia militare. In proposito si spese in Parlamento per eliminare la natura classista dell’esercito, strumento d’oppressione delle classi dominanti. Da uno dei suoi scritti inerenti “l’esercito popolare”, strumento ultimo di difesa della libertà, prese spunto Ho Chi Minh, che trovandosi in Francia poté udire i travolgenti discorsi di Jean Jaurés alla riunione dell’Internazionale.

Per tutta la sua carriera aveva denunciato e seguito con apprensione le guerre nel mondo, tra cui l’atroce conflitto nei Balcani. All’appropinquarsi della Grande Guerra i giornali lo tacciavano di antipatriottismo. Ma a Jaurès era ben chiara la differenza tra un sano amor di patria, per nulla conflittuale con l’internazionalismo e un cieco quanto folle nazionalismo.

La sera del 31 luglio 1914, mentre cenava in un caffè sotto la direzione del suo giornale, nella quale stava scrivendo un nuovo “j’accuse” contro l’escalation bellica di quei giorni, fu raggiunto dai colpi della pistola di Raoul Villain, uno studente nazionalista. Si spense così la voce della pace, il grande deputato internazionalista, un po’ repubblicano un po’ marxista.
Il giorno dopo la Francia dichiarò la mobilitazione generale, tre giorni dopo era entrata nel primo conflitto mondiale.

Cinque anni dopo l’assassino venne assolto in un clima di nazionalismo imperversante.

Noi prendiamo congedo da Jean Jaurès con le parole che Lev Trotsky , compiendo una rivoluzione al grido della pace, gli dedicò nel 1917:
“Jaurès, atleta dell’idea, cadde sull’arena mentre combatteva la più terribile piaga dell’umanità e della razza umana: la guerra .E rimarrà nella memoria dei posteri come precursore, prototipo dell’uomo superiore che deve nascere dalla sofferenza e dalle cadute, dalle speranze e dalla lotta”.

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