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venerdì , 19 Aprile 2024

“Dobbiamo correre”

“Dobbiamo correre”: così si conclude il tweet del Presidente Conte sull’esito del Consiglio europeo di giovedì.

Una frase che potrebbe anche sembrare innocua, o più probabilmente giusta e necessaria nel contesto generale di quest’anno, ma che tuttavia rischia di assumere un significato diverso alla luce della discussione sulla gestione del recovery fund. In particolare, il pericolo, non ancora scongiurato, è quello di un’esautorazione del Parlamento. “Dobbiamo correre”, nelle sue varie forme e declinazioni (“ce lo chiede l’Europa”, la mia preferita) è la scusa di tutte le politiche degli ultimi anni, caratterizzate dalla costante e crescente marginalizzazione dell’unico organo direttamente rappresentativo della volontà popolare. E ovviamente, chiunque la pensi diversamente (cioè chiunque creda che il perseguimento degli obbiettivi politici debba essere appannaggio delle assemblee legislative) è tacciato, oggi come ieri, di essere un criminale asservito alle destre, di minare la stabilità del governo.

A scanso di equivoci, e per evitare che chi abbia resistito sino a questo punto nella lettura mi creda un militante di Forza Italia viva, è bene anche precisare che risulta poco credibile il ruolo interpretato nell’ultima settimana dal senatore Renzi, il quale, quando era Presidente del Consiglio, tutto ha fatto meno che difendere le prerogative del Parlamento: dai molteplici abusivi ricorsi ai voti di fiducia e ai decreti legge, alla discussione sulla riforma costituzionale; per non parlare del confronto interno al suo partito. Del resto, anche lui, in quel ruolo, usava le stesse parole d’ordine e gli stessi argomenti per togliere de facto il potere alle Camere.

In ogni caso il problema è reale, ed altri e più coerenti appelli si erano sollevati anche nei mesi precedenti per cambiare la “gestione” della crisi.

Il più significativo, ad oggi, è probabilmente quello del 28 aprile di Marta Cartabia, ormai ex presidente della Corte costituzionale, che in sede di relazione annuale dell’attività della Consulta, rilevava come “la Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre una bussola per navigare in alto mare aperto nei tempi di crisi”. Semplice, chiara, diretta, tanto quanto inascoltata.

L’abuso, dapprima, degli ormai famigerati d.p.c.m. e delle ordinanze regionali e municipali, il confronto tra Sato e regioni piuttosto che tra maggioranza e opposizione e l’ipotesi, attuale, di una “task force” per la gestione dei fondi europei, sono tutti sintomi del crescente analfabetismo democratico della politica italiana. E non si tratta solo di problemi formali perché in democrazia, la forma è sostanza. Insomma, la dialettica parlamentare e politica, in situazioni di crisi, non è necessaria perché “così è scritto”, ma perché “così è meglio”, poiché porta a risultati concreti migliori di quelli di una gestione verticistica.

Spesso si paragona l’impatto della pandemia a quello di una guerra: ebbene, il ricorso alla storia può essere d’aiuto al discorso. Quando nei suoi primissimi anni di vita, questa Repubblica ebbe a ricostruire il paese dalle macerie del secondo conflitto bellico mondiale, non lo fece grazie ai tecnici ma ai politici; i governi cambiavano alla velocità della luce, ma non i partiti e gli ideali da cui erano sorretti. Oggi è l’esatto contrario, si obietterà (alla tanto agognata stabilità di governo si contrappone un panorama politico frammentato e in continuo cambiamento; sicuramente non si possono accostare gli statisti della prima repubblica a personaggi della seconda o terza) ma il nocciolo della questione è comune: la ricrescita di un paese porta con sé scelte politiche, non tecniche.

Una delle questioni che si devono affrontare riguarda gli strumenti per la ricostruzione: si continuerà con bonus, finanziamenti e rimborsi a pioggia o si spingerà per un ritorno permanente alla partecipazione pubblica nell’economia e alla sua programmazione? Un comitato di tecnici metterebbe mai vincoli politici all’utilizzo delle risorse per ripianare finalmente il divario nord-sud o scommetterebbe sul cavallo vincente? E come si coniuga l’autonomia differenziata con l’obiettivo dell’equità territoriale? Si sta discutendo dell’idea di paese aldilà dei vacui “ce la faremo”? Cambierà radicalmente l’approccio alla pubblica istruzione e alla sanità, o verranno date loro solo le briciole? E ancora, come si censurerebbero le responsabilità di soggetti posti fuori da circuito della rappresentanza democratica?

“Dobbiamo correre”, senza dubbio, ma lo devono fare i soggetti entro cui avviene la mediazione tra interessi e il confronto di idee: lo deve fare la politica, senza deleghe ad organi paralleli.

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