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giovedì , 10 Ottobre 2024

No, non è stata la pandemia a porre fine alla globalizzazione

Di Giuseppe Lipari

Il presidente degli Stati Uniti, in piena campagna elettorale, intervistato dalla Fox ha dichiarato: “i globalisti dicevano che dovevamo rendere il mondo ricco a spese nostre, questi giorni sono finiti, e questi ultimi due mesi lo hanno dimostrato”. Frase che in modo creativo ma non del tutto inappropriato è stata rielaborata dalla stampa italiana come “la pandemia ha posto fine alla stagione della globalizzazione”.

Che il presidente più protezionista degli ultimi decenni dica questo non è una sorpresa. Dato però che accettare le narrazioni americane è una moda in Italia e in Europa (e non solo a destra), è giusto provare a guardare agli ultimi decenni, affinché ognuno possa farsi la propria idea.

La globalizzazione come noi la conosciamo inizia precisamente nel 1989, con il cosiddetto “Washington Consensus”. L’economista John Williamson così sintetizza le politiche pubbliche allora considerate necessarie dal Tesoro Statunitense, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale per uscire dalle crisi economiche e portare i paesi poveri alla prosperità. 

In realtà, come spesso accade nella Storia, queste prescrizioni vennero usate in modo assai diverso da come previsto dal loro ideatore. Si trasformarono in regole secondo le quali queste istituzioni giudicavano se un paese fosse all’altezza di “essere aiutato” con dei prestiti (che generosità). Ancora oggi le istituzioni guidate dagli Stati Uniti (non a caso è il Washington Consensus, mica il Mosca Consensus) chiedono a tutti coloro che sono in difficoltà di chiudere tutte le aziende pubbliche, diminuire gli investimenti e la spesa dello Stato, tagliare i servizi pubblici, abbassare le tasse sui grandi patrimoni e sui redditi più alti, e lasciare libertà totale di movimento ai capitali e alle merci, senza dazi o protezioni nazionali di alcun tipo per le industrie e il commercio.

Crollata l’Unione Sovietica dopo pochi anni, rimanendo gli Stati Uniti la vera unica superpotenza, queste regole magiche sono arrivate praticamente ovunque.

In Europa, con l’eccezione delle Socialdemocrazie del Nord, tutti i paesi hanno adottato, a livelli diversi, politiche di smantellamento della presenza pubblica nell’economia (le “liberalizzazioni”) e di diminuzione dei servizi tradizionalmente elargiti dallo Stato, peggiorando la qualità della vita di milioni di persone (sfido chiunque a dire che la sanità o la scuola italiane siano migliorate rispetto al 1990) e lasciando interi settori dell’economia totalmente sregolati e soggetti alle crisi in arrivo dall’estero. La stessa Unione Europea di Maastricht, coi famosi vincoli di bilancio, è più figlia del Washington Consensus che non delle Comunità Europee le cui politiche pubbliche erano in parte ispirate ad altri modelli (es. quelle a protezione dell’agricoltura).

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