fbpx
mercoledì , 24 Aprile 2024

Riflessioni sul Cambiamento Climatico ovvero l’Utopia Necessaria

Una seria discussione sul cambiamento climatico non può prescindere da una profonda riflessione sul nostro rapporto con la natura, con i suoi infiniti intrecci di percorsi e dinamiche vitali, spaziali e temporali.
A tal proposito, è singolare che nella letteratura ormai vastissima sull’argomento, la parola “natura”, compaia raramente nella sua accezione primaria: l’insieme di tutto ciò che abita la Terra.

Ma non sono stupito di questo. La tendenza a considerare la natura “altro” da noi, un bel paesaggio in cui trascorrere le vacanze, o più spesso una risorsa da valorizzare economicamente, è ormai radicata nel nostro senso comune. A tal proposito, potremmo parlare di una progressiva scomparsa della natura dalla nostra cultura, “esternalizzata” nei costi economici di produzione e ridotta a spettacolo da esibire ai bambini, o, più crudamente, affermare la sua “morte”.

“​Lo sviluppo della scienza a partire dal XVII secolo ha avuto un esito positivo nel senso che per molti aspetti ha migliorato la vita di tanta gente. Ma esso ha avuto anche un costo, che è stato pagato dalle donne, dalla natura e dalle classi lavoratrici, ossia molta gente si è impoverita a beneficio delle classi medie ed alte. Si è diffuso un senso di ottimismo sulla possibilità di controllare la natura attraverso la scienza e la tecnologia, ma le conseguenze sono state l’impoverimento delle risorse naturali e l’inquinamento dell’ambiente, come è evidente nella nostra attuale crisi ecologica​.” (intervista a Carolyne Merchant, autrice de “​La morte della natura​”, Garzanti, 1988, http://www.issm.cnr.it/demetrapdf/boll_14_2007/Pagine%20da%20demetra_imp%2014_armiero. pdf​ ).

Il rapporto con gli esseri viventi non umani si è profondamente modificato e distorto soprattutto nei contesti urbani sempre più affollati e distaccati dalla natura: o ci si porta a casa conigli o persino maiali oppure li ignoriamo completamente, in quanto ci si presentano solo in forma di pezzi di carne nei frigoriferi dei supermercati. Da un lato quindi la scienza ci ha consentito di comprendere e teorizzare i meccanismi dei fenomeni naturali e le dinamiche della vita biologica, dall’altro proprio questa nostra capacità, e con essa la presunzione di poterli padroneggiare, ce ne ha progressivamente estraniato.

Il cambiamento climatico, allora, è solo un aspetto di uno stravolgimento ben più ampio causato dalle attività antropiche sul pianeta, efficacemente sintetizzato nel termine ​Antropocene​, basti pensare all’inquinamento da plastica e migliaia di altri composti sintetici, agli ingombranti e pericolosissimi residui radioattivi delle centrali nucleari e degli arsenali atomici, alla perdita di biodiversità, alle migrazioni di massa, ecc. Siamo di fronte, in ultima analisi, a un ​trend non lineare di eventi e fenomeni​, metereologici come sociali ed economici (aumento a dismisura del debito pubblico, alti tassi di disoccupazione, drastica riduzione del ​welfare ecc.), difficilmente prevedibili e controllabili, la cui combinazione potrebbe rivelarsi fatale anche in tempi molto più brevi di quelli solitamente indicati nelle previsioni dei ​panel​ internazionali.

“​L’idea che un singolo equilibrio stabile rappresenti lo stato naturale dei sistemi naturali della Terra non è supportato dalle osservazioni e dalle ricerche sin qui realizzate sui cambiamenti globali verificatisi nel passato. Il comportamento del sistema Terra è invece soggetto a meccanismi fortemente non lineari, in cui piccoli mutamenti in qualche funzione importante possono spingere rapidamente il sistema ad attraversare una soglia, dirigendolo verso improvvisi mutamenti negli aspetti chiave del suo funzionamento”​ (​Gianfranco Bologna​, “Manuale della sostenibilità”, Ed. Ambiente, 2008).

“​Se l’economia crolla, lo farà fino a che non raggiungerà un livello sostenibile più in basso. Gran parte delle infrastrutture mondiali sono state costruite quando il petrolio poteva essere estratto a 20 dollari al barile; ma quei giorni sono lontani. Così, sembra che il mondo dovrà collassare ad un livello antecedente all’epoca dei combustibili fossili – forse molto precedente ad essa. Sappiamo che se ci saranno sopravvissuti, è probabile che ci saranno nuove economie. Non sappiamo esattamente come saranno, eccetto che saranno limitate all’utilizzo delle risorse disponibili al momento”​ . (“​La fisica dell’energia e dell’economia”, di ​Gail Tverberg​, tradotto da ASPO Italia, versione originale inglese postata in ​Our Finite World l’8.2.2016 https://ourfiniteworld.com/2016/02/08/the-physics-of-energy-and-the-economy/​ )

Trattare il cambiamento climatico estrapolandolo da questo contesto o anche solo concentrarsi nominalmente su di esso potrebbe avvalorare l’impressione errata che si tratti tutto sommato di un effetto collaterale indesiderato che è, o sarà, possibile correggere/limitare con gli opportuni accorgimenti tecnologici e di processo. Ma il mito della cosiddetta ​green economy​, basata sul presunto “disaccoppiamento” (​decoupling​), globale e abbastanza rapido, della crescita economica da tutti gli impatti negativi sulle risorse sull’ambiente, sta crollando definitivamente, come dimostrano recenti valutazioni condivise a livello europeo. Negli ultimi vent’anni abbiamo creduto di poter aumentare il PIL riducendo le emissioni. Non è successo e difficilmente accadrà in futuro, come dimostra l’ultimo rapporto dello European Environmental Bureau.

“La produzione e il consumo meno impattanti sono quelli che non hanno luogo. Il fatto che questa soluzione del senso comune non venga presa in considerazione tra le opzioni dei rapporti che studiano le misure politiche, è la prova parlante di quanto sia divenuta dominante l’enfasi unidimensionale sull’eco-efficienza.
Al contrario di auto alimentate a idrogeno, smart-grid regionali, e mercati del carbone perfettamente funzionanti, la riduzione di produzione e consumi non è una narrativa astratta. Negli ultimi due decenni, i movimenti del Nord globale (transition towns, decrescita, eco-villaggi, slow cities, economie eque e solidali, economie dei beni comuni ecc.) hanno iniziato ad organizzarsi attorno al concetto di sufficienza, che può ispirare un approccio politico trasversale. Ciò che questi movimenti dicono è che il di più non è sempre meglio, e che in un mondo minacciato dal clima, il sufficiente può essere abbondante. Molti di questi attori affermano che la sufficienza non è una scelta di sacrificio, disoccupazione, crescita delle disuguaglianze, povertà e “dimagrimento” dello stato sociale, ma è la scelta di una economia giusta che rimanga all’interno della capacità di carico della biosfera.
Ciò che si deve disaccoppiare non è la crescita economica dalle pressioni sull’ambiente, ma la prosperità e la ‘buona vita’ dalla crescita economica.”
(da “​Decoupling debunked​ (​Disaccoppiamento smascherato​). ​Evidence and argument against green growth as a sole strategy for sustainability”, ​European Environment Bureau, luglio 2019
https://eeb.org/library/decoupling-debunked/​ )

Emerge quindi con sempre maggiore evidenza che occorre intervenire invece sulla causa fondamentale del collasso ecologico, cioè la crescita a dismisura di produzione, commercio e consumi ovvero interrompere il rapporto predatorio con il pianeta, ridotto a risorsa da sfruttare, secondo una rappresentazione utilitaristica della natura che ha progressivamente preso il sopravvento nella nostra cultura.

“Quando si parla del nostro tempo come di epoca della rappresentazione, concetto che richiama la definizione dell’età moderna di Heidegger come “Tempo dell’immagine del Mondo”: il moderno fonda il nuovo dominio del soggetto cosciente sulla riduzione del mondo a immagine. Il mondo viene ridotto a mero oggetto di osservazione, a Gegen-stand,letteralmente a ciò-che-sta-di-fronte alla coscienza soggettiva.
Una siffatta riduzione comporta che il mondo cessa di essere l’habitat in cui le nostre vite sono immerse in un intreccio con le altre forme di vita non umane, per trasformarsi in oggetto di conoscenza razionalizzabile, misurabile, calcolabile e di conseguenza assoggettabile e plasmabile dai dispositivi di rappresentazione produttiva allestiti dal soggetto.” (Giacomo Marramao ​, “Dopo il Leviatano”, 2016, Bollati Boringhieri ).

Il rapporto dell’umanità con la natura, se all’epoca della forma di comunità cacciatrici/raccoglitrici era dettato da ragioni di pura sopravvivenza, negli ultimi secoli è stato condizionato quasi esclusivamente dallo sfruttamento economico a fini di profitto. Anche l’assunto che farebbe risalire l’inizio dei cambiamenti climatici agli esordi dell’era industriale è stato recentemente smentito; ricerche multidisciplinari hanno dimostrato che la superficie terrestre risultava largamente modificata dall’agricoltura già 3.000 anni fa.
(​La modifica degli equilibri ambientali è iniziata già 10.000 anni fa ma è diventata incontrollata negli ultimi 150 anni https://www.lescienze.it/news/2019/08/30/news/la_modifica_degli_equilibri_ambientali_e_iniziata_gia_1 0_000_anni_fa_ma_e_diventata_incontrollata_negli_ultimi_150_anni-4525659/​ )

Il cambiamento climatico allora è solo un sintomo di un problema molto più grave: il rischio reale di una Estinzione di Massa​ delle specie viventi, uomo incluso.

Oggi siamo nel bel mezzo della sesta estinzione di massa.Un evento di una portata tale che percepirne le conseguenze non è per niente facile. L’odierno tasso di estinzione delle specie del pianeta è inimmaginabile. Nel 2014, un gruppo di ricerca coordinato da Stuart Pimm della Duke University stimò il normale tasso di estinzione sulla Terra, prima dell’apparizione dell’uomo, pari a 0,1 specie estinte per milione di specie per anno (0,1 E/MSY), il tasso odierno sarebbe di 1.000 volte superiore, mentre i modelli per il prossimo futuro indicherebbero un tasso di estinzione fino a 10.000 volte più alto del normale. Sono i numeri di un’apocalisse. Le passate estinzioni di massa di cui si ha conoscenza, sebbene veloci, si sono manifestate lungo un arco di milioni di anni. L’attività umana, al contrario, sta concentrando la sua letale influenza sulle altre specie viventi in una manciata di anni.
Come potrebbe l’estinzione di piante, insetti, alghe, uccelli, mammiferi vari, influire sulla nostra sopravvivenza? Ok, è triste che i rinoceronti, i gorilla, le balene, gli elefanti, le banane, le foche monache, le lucciole, le violette si estinguano ma, alla fine, chi li ha mai visti? Viviamo in città. Per noi urbani, la natura è roba da documentari, niente a che vedere con noi.
A noi interessa lo spread, il PIL, l’euribor, il nasdaq, sono queste le cose che possono far crollare la civiltà come la conosciamo. Sbagliato!
È l’idea – talmente diffusa da essere diventata un luogo comune – che noi umani siamo fuori dalla natura che è veramente pericolosa. (da LA NAZIONE DELLE PIANTE, Stefano Mancuso, 2019 Laterza).

Proprio rispetto a questa eventualità sempre più concreta, il continuare a proporre formule legate alla “crescita” – la quale, anche se limitata, è sempre in antitesi con la finitezza delle risorse della Terra, ricordiamolo, l’unica culla possibile della vita – senza riconoscere che, in estrema sintesi, ​la corsa alla crescita economica non è la soluzione ma la causa del problema​, non equivale a continuare a suonare con l’orchestrina sul Titanic che affonda senza neanche preoccuparsi di calare le scialuppe?

Le soluzioni tecnologiche potranno favorire probabilmente la riduzione delle emissioni, dell’inquinamento e dei rifiuti e forse anche arrivare, con grandi sforzi da parte dei governi – al momento non visibili, ad incidere sul cambiamento climatico, ma tutto ciò non servirebbe se non si riuscisse anche a migliorare le condizioni di quella consistente parte di umanità che ancora è costretta a ricercare altrove una speranza di vita. Finché la logica del profitto e della competizione continuerà a prevalere su quella della condivisione e della solidarietà nessuna tecnologia potrà condurre a società più eque.
Queste considerazioni ci portano immediatamente alla domanda “che fare allora”?, una risposta alla quale, approfondita e condivisa, deve essere quindi la finalità principale del nostro impegno politico.
Da questo punto, a mio parere, si dipartono due strade: avviare un percorso di profonde riforme economiche e sociali che ci portino fuori dal neoliberismo e dal produttivismo, dalla competizione come valore di mercato e sociale, così come dallo “sviluppismo”, altrettanto nefasto della crescita ancorché mitigato da una improbabile sostenibilità, ovvero ripartire invece dall’uomo, specie tra le specie, dalla riscoperta del nostro intimo rapporto con tutto ciò che ci avvolge come una inestricabile e simbiotica trama vitale, verso una ritrovata sintonia con tutti gli esseri viventi, umani e non umani? Oppure, come si potrebbe subito obiettare, un percorso “misto” tra i due, un’azione da condurre in parallelo sulle due direttrici? Parliamone.

Nel primo caso, data la pervasività del sistema che si è consolidato negli ultimi secoli e la sua estrema riluttanza a cedere terreno e privilegi, sicuramente impiegheremmo molto tempo e molto probabilmente nel momento in cui si iniziassero a vedere i primi risultati di una siffatta “rivoluzione”, il pianeta sarebbe già andato arrosto. Il contesto globale vede infatti i poteri sempre più collocati al di fuori delle istituzioni politiche nazionali o federative, le quali svolgono per lo più il “compitino” assegnato loro dalle istituzioni finanziarie internazionali, dai “mercati” sovrani (loro sì detentori della ​potestas​, non i “sovranisti” nostrani da bar dello sport). La transizione, subdola e silenziosa, da economia di mercato a “società di mercato”, il sostanziale scambio di ruolo tra politica ed economia, con la conseguente sostituzione delle classi di valori a ciascuna sottese, ha svuotato di fatto l’agire politico dei suoi contenuti ideali, ha ridotto lo Stato ad una (lenta) macchina amministrativa, a un mediatore di interessi privati, a un triste campo da gioco per sedicenti leader, “strilloni” o, più recentemente, ​influencer p​ olitici. Non va sottovalutato il rischio che questa situazione crei un deficit di democrazia, laddove le scelte più importanti vengano sottratte al voto dei cittadini.

Nel secondo caso, forse l’impresa si presenta ancora più ardua, di fronte ad una massa di persone che hanno ormai introiettato le regole del mercato nelle relazioni personali e sociali, come unico modello sociale possibile al quale non esiste alternativa. Questo si traduce nella sostanziale indifferenza verso la prospettiva della fine della vita sul pianeta, sicuramente quella umana, che, nonostante i ​Fridays for Future e gli appelli degli scienziati, rimane relegata a ipotesi da film di fantascienza. Il costante bombardamento su notiziari e social con dati sui disastri ecologici, e gli annessi allarmi catastrofistici, sortisce l’effetto paradossale di farci sentire ancora sufficientemente distanti dalla ​fine del (nostro) mondo​, spazialmente e temporalmente, ancora al sicuro nel nostro piccolo quotidiano dove non ci sono orsi polari affamati che vanno alla deriva su lastre di ghiaccio, isole del Pacifico sommerse dal mare o sterminate torbiere siberiane in fiamme, ma al loro posto tanti bei surrogati tecnologici che ci assicurano quel godimento sapientemente dosato e stimolato per alimentare i consumi all’infinito. Prevale, di fronte alle immagini dello scioglimento dei ghiacciai o del depredamento delle foreste amazzoniche, anche tra chi è invece più consapevole, un generale senso di impotenza, di resa ad un destino ineluttabile, e ci si lascia alla fine trasportare dalla corrente del ​mainstream,​ tentando di afferrare ancora quei piaceri (che so, un viaggio esotico…) che magari domani non ci saranno più.

Il “che fare allora?” va ben oltre i confini di formule economiche, ammantate di una scientificità mai veramente dimostrata, e di una tecnologia che non potrà mai sostituirsi alla natura, alla sua capacità unica di produrre e sostenere la vita; non è riducibile in una ricerca di maggiore efficienza e (presunta) sostenibilità ma deve puntare molto più in alto.

L’interrogativo, che si pone in modo imperativo e improcrastinabile, necessita di una risposta dagli elevati contenuti ideali, oserei dire spirituali, non solo affascinanti e trascinanti ma allo stesso tempo credibili e traducibili in proposte concrete, “definizioni operative” degli obiettivi da perseguire, semplici ma al contempo radicali (tipo: eliminare la produzione di tutte le plastiche monouso, piantare e curare dieci o cento o mille alberi per ognuno di noi, non costruire più strade per automobili, chiudere gli allevamenti intensivi e così via). Si parla certo di interventi che avranno ricadute enormi sulla economia e sulla società come le conosciamo e le viviamo, e per questo trovano opposizioni e resistenze fortissime, ma la posta in gioco è così importante che le soluzioni da adottare non potranno essere meno che dirompenti per il sistema attuale.

Va detto che l’esigenza di una nuova “narrazione” politica, che possa sostituire quella del cosiddetto pensiero ​mainstream neoliberista, della competitività e del “​winner takes all​”, ha iniziato da tempo a farsi strada, in particolare dopo l’inizio dell’ultima crisi economica (nella quale peraltro continuiamo ad annaspare), ma nessuno ancora è stato in grado di indicarne con sufficiente chiarezza le regole o i percorsi e soprattutto di attrarre su di essa i consensi delle maggioranze.

“Senza una nuova storia, che guidi loro stessi e consenta loro di guardare ad un futuro migliore piuttosto che a un passato migliore, sarà inevitabile che i partiti che una volta cercavano di resistere al potere delle ricche élite perderanno il loro senso di orientamento. Il rinnovamento politico dipende da una nuova narrazione politica. Senza una nuova storia, positiva e propositiva, invece che reattiva e oppositiva, niente cambierà. Con una storia di questo genere, tutto cambierà.
La narrazione da costruire deve essere semplice e comprensibile. Se deve cambiare la nostra politica, deve essere vista dalla maggior parte delle persone come possibile, attraversando i tradizionali confini dei partiti politici. Deve spiegare il guaio in cui siamo e gli strumenti con i quali possiamo venirne fuori. E, poiché non c’è nulla da guadagnare nel diffondere falsità, deve essere saldamente ancorata alla realtà.” (​“Come possiamo venir fuori da questo guaio?” , ​George Monbiot​, The Guardian, 9.9.2017, ​https://www.monbiot.com/2017/09/11/how-do-we-get-out-of-this-mess/ )

Una nuova storia necessita inevitabilmente anche di un nuovo linguaggio, di un nuovo forte simbolismo, senza il quale i messaggi, come quelli sul collasso ecologico, rischiano di rimanere inascoltati.
Come scrive Marramao, “​le poetiche vengono sempre prima delle politiche”​

Avverto allora fortemente, e concludo tornando all’inizio, come dovere personale oltre che come obiettivo comune la ricerca di questo percorso, forse non completamente nuovo ma sicuramente di rottura con una “modernità” razionalista e meccanicista, che ha decretato la nostra “separazione unilaterale” dal mondo della vita sul pianeta. La ridefinizione del concetto di modernità è indispensabile per non confonderla col progresso tecnologico, sotto il quale si cela di fatto l’attuale versione tecnoliberista del capitalismo. La crescita esponenziale della capacità di gestione di enormi quantità di dati personali ha completamente saturato la nostra quotidianità, trasformando anche noi in merce e relegando in spazi sempre più ridotti le aspettative di realizzazione personale e sociale di ciascuno all’interno della comunità.

“​Viviamo nell’epoca euforica dell’economia digitale in piena espansione, volta a monetizzare ogni singola occorrenza spaziotemporale. Si chiama “economia dei dati” – sarà infatti applicabile a ogni fenomeno dell’esistenza umana e terrestre – ed è inesauribile. Un modello che spazza via la constatazione dei limiti strutturali della crescita e partecipa all’entusiasmo mondiale nei suoi stessi riguardi. Questo senso di infinita espansione è indissolubilmente legato all’essenza del digitale, che presuppone combinazioni illimitate dovute all’aumento esponenziale della capacità di stoccaggio ed elaborazione dati, oltre alla crescente varietà delle tipologie di dati disponibili. Qui la logica computazionale si intreccia e si confonde con la logica tipica del liberismo, che non smette mai di aspirare alla conquista di nuovi mercati, all’esplorazione di un “West” indefinitamente spostato in avanti. Velleità “naturale” oggi esaltata come non mai, che tramuta il regime liberista in tecnoliberismo, capace di realizzare l’anelito ultimativo di non essere frenato da alcun limite e di non venire escluso da alcun ambito. L’economia digitale aspira a trasformare ogni gesto, ogni fiato, ogni relazione in un’occasione di profitto, nell’intento di non lasciare nessuno spazio vuoto e sempre a caccia di ogni molecola vitale, per poterla occupare fino a confondersi con la vita stessa. L’economia digitale è l’economia totale della totalità della vita”​. (da LA SILICONIZZAZIONE DEL MONDO, ​Eric Sadin​, Einaudi 2018, pagg. 12-13)

Solo chiarendo i termini del nostro ruolo nella complessa dinamica della vita sul pianeta, e degli enormi danni che le abbiamo sinora arrecato, potremo evitare il rischio di limitarci a inseguire proposte di cambiamento allettanti e apparentemente risolutive (come ​l’economia circolare​, per dirne una) ma che muovono anch’esse dagli stessi falsi presupposti che ci hanno condotto sull’orlo del baratro, alla ”bancarotta” non solo economica e sociale ma soprattutto della Natura (​J. Rockström e ​A. Wijkman “​Natura in bancarotta. Perché rispettare i confini del pianeta​”, Ed. Ambiente 2014).

È vero che l’economia circolare vuole privilegiare l’uso delle energie rinnovabili e punta all’eliminazione dei rifiuti e degli sprechi attraverso una migliore progettazione dei prodotti e dei modelli di ​business​, ma ciò più per esigenze di mercato che per scelte etiche: le aziende si preoccupano di affrontare scenari futuri caratterizzati da scarsità (e costi elevatissimi) di materie prime per far fronte all’aumento della popolazione mondiale e della conseguente domanda, mantenendo però inalterati gli obiettivi di crescita dei fatturati e di fidelizzazione dei consumatori. Inoltre il riciclo avviene attualmente in percentuali basse e cresce solo lentamente; i processi stessi di riciclo richiedono ancora una significativa quantità di energia e di materia prima, il che ne limita fortemente la capacità di fornire tutte le risorse necessarie per una economia materiale in espansione senza intaccare ulteriormente gli stock naturali.

Rimane quindi il forte dubbio sulla effettiva possibilità che questo innovativo approccio economico, al di là dell’annunciata diminuzione dell’impatto sull’ambiente, possa veramente far coesistere il rispetto della natura e l’etica della riduzione delle disuguaglianze con le esigenze finanziarie delle ​corporate​.

Il nostro impegno, infine, se ambisce a coinvolgere e a “formare” altre persone, soprattutto i giovani, ha chiaramente come corollario la definizione di una nuova “identità politica” cui far riferimento (o, a questo punto, sarebbe meglio dire una “identità della specie umana”), completamente differente da quelle storiche o anche più recenti, sia per gli orizzonti ideali, come detto, ma anche per quelli temporali.

Se l’obiettivo comune da realizzare è una ​“Nazione dei Viventi”, animali e vegetali, con ​pari diritti e dignità​, la progettazione del futuro richiederà programmi su scale temporali che vanno ben oltre quelle della durata di una legislatura o anche di una generazione: il parametro con cui ci si dovrà necessariamente rapportare è la conservazione della vita sul pianeta.

“Il problema è che i diritti e la cittadinanza e lo status di soggetto (e i lessici collegati a questi concetti) hanno a che vedere con il possedere cose. Idiritti individuali sono basati sui diritti di proprietà, tanto che essere in possesso di se stessi, ‘compos sui’, per esempio, è un requisito per averli. Ma se ogni cosa ha diritti, nulla può essere una proprietà, e quindi nulla può avere diritti. Semplice. Se lo rapportiamo alle dimensioni della Terra, il linguaggio dei diritti non funziona per niente. L’altro problema è che per assegnare diritti a qualcuno devi per tradizione dimostrare che quel qualcuno è davvero un qualcuno, in altri termini, che il tale essere ha un concetto di sé. Pertanto il povero scimpanzé, per fare un esempio tratto dal codice americano, deve aspettare che un numero sufficiente di esseri umani sia tanto gentile da riconoscergli un concetto di sé. Finora questa tattica non ha funzionato granché bene per gli scimpanzé, e nemmeno per quasi tutte le creature non umane.
È per questo che è tanto interessante ciò che ha fatto l’Ecuador con la multinazionale del petrolio Chevron. Trentamila ecuadoregni che vivevano nella foresta pluviale amazzonica hanno fatto causa alla Chevron per 27 miliardi di dollari per aver condotto trivellamenti in cerca di petrolio nei giacimenti di Lago Agrio, impregnando i terreni di greggio viscoso. L’Ecuador ha riscritto dal 2007 al 2008 la propria costituzione in modo da dare spazio ai “diritti della Natura”. Significa che il mondo non umano ha il diritto di esistere e rigenerarsi.Se pensi che sia antropomorfo a livelli pericolosi, è un vero peccato. Il problema è che non c’è modo per noi umani di inserire i non umani nel linguaggio dei diritti se non portandoli nel perimetro dell’ombrello umano sotto il quale ci stiamo riparando.” (Da: Timothy Morton,” Noi esseri ecologici”, Tempi Nuovi 2018, pagg. 100-101.)

In questo senso, il ruolo e le peculiarità dell’​Homo sapiens andranno completamente ridefinite, dalla titolarità di un malinteso “​diritto di natura​”, come specie dominatrice, ad usufruire senza remore di risorse che andrebbero condivise con tutte le altre specie, alla consapevolezza di una ​maggiore responsabilità verso quelle stesse, proprio in virtù della nostra “specializzazione”, della capacità creativa ed immaginifica che ci rende, forse, unici ma pur sempre una voce singola nella “grande orchestra” della biodiversità.

“Siamo in una scala evolutiva che in parte noi umani abbiamo percorso, ci manca ancora molto per arrivare alla cima della comprensione, possiamo però aiutare coloro che sono ai primi gradini senza doversi vergognareSapendo che il loro bene è anche il nostro. Questo vale per le piante, per l’aria, per le risorse accumulate sulla terra nei milioni di anni, per il nostro passato nella melma e per il nostro futuro nelle stelle. Per aspera ad astra!​”

[​https://www.terranuova.it/Blog/Riconoscersi-in-cio-che-e/Ecologia-profonda-e-rapporto-uomo-natura- animali​ ]

Non sarà ​allora l’economia a salvarci dai cambiamenti climatici e dalla bancarotta ecologica e sociale (​https://dissensi.it/shop/prodotto/non-sara-leconomia-a-salvarci-di-danilo-ruggiero/​), non saranno la crescita del Pil o l’abbassamento dello ​spread,​ sarà invece la Natura ad indicarci la strada per una nuova primavera dell’umanità. Una utopia certamente avventurosa e piena di incognite ma, al punto in cui siamo, assolutamente necessaria.

Social media & sharing icons powered by UltimatelySocial
Facebook
Instagram