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venerdì , 19 Aprile 2024

Il taglio dei parlamentari, il caso siciliano e il masochismo della sinistra

Qualche monito sul taglio dei parlamentari, prima che l’antipolitica (cioè l’antidemocrazia), ci seduca con le sue risposte semplici a problemi difficili.

Si tratta di una riforma costituzionale che interviene ancora una volta nella forma delle istituzioni: ci hanno provato Berlusconi e Renzi, ci è riuscito prima di loro D’Alema; ora la proposta è di Patuanelli e Calderoli, le cui capacità di legislatori sono, nel primo caso, dubbie, nel secondo caso, di certificata inadeguatezza costituzionale (stiamo parlando del promotore del “porcellum”).
Relatori a parte, i veri problemi sono altri.
Prima di tutto, dietro questa riforma (e tutte le altre riforme istituzionali, tentate o riuscite) c’è sempre il medesimo criterio ispiratore: “non riusciamo a interpretare il mondo di oggi, a dare risposte alle persone? Non è colpa nostra o della classe politica, ma del sistema costituzionale.” Quindi cambiamolo. In pratica, la colpa è della Costituzione, non di chi non ne attua i principi e lo spirito.
Molti non ritengono che sia vitale per la democrazia una giusta proporzione tra rappresentanti ed elettori; che sia una questione di forma, poco distante dai problemi concreti delle persone. Anzi, il taglio dei parlamentari taglia le poltrone di una classe politica ormai troppo distante dai più e fa risparmiare un po’ di denaro pubblico che si potrebbe investire in servizi vicini alla cittadinanza. Vero, ma lo stesso risultato si potrebbe (o si sarebbe potuto) raggiungere, mantenendo fermo il rapporto eletti-elettori (che si dimezzerà, quasi), dimezzando gli stipendi dei parlamentari. A livello procedurale sarebbe pure più rapido e indolore: una legge ordinaria in luogo di una costituzionale.
Allora forse non si tratta solo di “poltrone”, ma di come si vuole modellare la rappresentanza nel nostro paese, cioè di come modificare il peso del Parlamento. Non dobbiamo nemmeno sforzarci di immaginare a quali conseguenze andiamo in contro: le vediamo nei Consigli comunali e regionali, dopo anni di riforme che spingevano verso il medesimo obiettivo, cioè quello di garantire un bacino di voti stabile, una platea di “yesmen” all’esecutivo di turno. Lo stesso concetto di democrazia allora muta: da “la minoranza conta” a “la maggioranza vince”.

La riforma presidenzialista (quella che Sandro Pertini etichettò come “l’anticamera della dittatura”) appare come il necessario approdo di questo processo e sarà pure più facile realizzarla con un Parlamento in cui serviranno meno voti per raggiungere il fatidico quorum dei due terzi, in virtù del quale sarebbe impedita la consultazione referendaria di conferma. Del resto, il presidenzialismo è già nel programma di FdI e Lega, i fascisti di ieri e di oggi.
Nemmeno basta la “contropartita” della riforma elettorale in senso proporzionale: si tratta di una legge ordinaria, quindi basterebbe una maggioranza semplice, in futuro, per riportarci in un sistema maggioritario o misto, a quel punto però, con un Parlamento già dimezzato.
Nel momento storico di maggiore distacco dei cittadini dalla politica, tagliare seggi, cioè voti, rappresentanza politica, non aiuta certo a un riavvicinamento. Non c’è bisogno di un Parlamento ubbidiente ma realmente rappresentativo.

L’esempio (negativo) della Sicilia

La XVI legislatura dell’Assemblea regionale siciliana (giunta Crocetta) aveva già approvato un taglio di propri seggi (da 90 a 70), che è entrato a regime con l’attuale legislatura. Sono due le conseguenze che sono saltate subito all’occhio. In primo luogo, è risultato evidente il “taglio dei voti”: basti notare che una lista col 6% dei consensi (più di 100.000 preferenze su quasi 2 milioni di cittadini recatisi alle urne) ha potuto eleggere solo un deputato. In secondo luogo, dati alla mano, la XVII legislatura regionale (la prima con 70 deputati) è quella meno attiva della storia: poche sedute, poche leggi approvate, nonostante i bisogni dei siciliani. A meno che non si creda in una fatale coincidenza, questa eccezionale inattività è frutto proprio del taglio dei seggi: meno rappresentanti, meno istanze rappresentate e presentate in aula. In questo caso contribuisce fortemente anche il sistema neopresidenzialista, in vigore dai primi anni del 2000, e che, come evidenziato in precedenza, non possiamo escludere dal novero delle prossime proposte di riforma costituzionale.

Questi sono dati empirici che dimostrano come la riduzione dei parlamentari non vada nella direzione di una maggiore efficienza dei lavori dell’aula, come molti credono o vogliono far credere; casomai è dimostrato l’esatto contrario.

Quando la maggioranza vota una riforma per l’opposizione

Tornando a Roma, per la prima volta nella storia, la maggioranza (M5s-Pd-Leu-Italia viva) ha votato una riforma costituzionale che favorisce la minoranza, la quale ovviamente ha votato a sua volta a favore. Già, perché al netto delle guarentigie che avrebbero giustificato il cambio di idea repentino del centro sinistra (che al Senato si era espresso contrariamente al taglio dei parlamentari), nonostante si parli di una futura, ma ancora immaginaria, legge elettorale proporzionale*, c’è già una richiesta pendente di referendum proposto da Lega e Fratelli d’Italia per abrogare la quota proporzionale dell’attuale legge elettorale e passare quindi a un maggioritario.

Sicuramente M5s e Pd rivendicheranno questo loro “successo” nella prossima campagna elettorale,
ma saranno vittime della loro stessa demagogia.

*N.d.r: ovviamente la maggioranza, convinta di poter raggiungere nuovi livelli di masochismo, si è subito lanciata in una battaglia per mantenere un sistema maggioritario.

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