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venerdì , 19 Aprile 2024

Il costo dell’interruzione. Dialogo sull’era post-Covid

Di Simone Zanello e Agostino Biondo

S. Z: La fine di questo lockdown è stata salutata da tutti come una grande festa: comprensibile ma non del tutto condivisibile, almeno su un piano politico-esistenziale, per quanto mi riguarda.
È chiaro che per molti rivedere i propri amici, tornare a incontrarsi, spendere del tempo in compagnia è stata una vera e propria liberazione.
D’altro canto, però, non mi sento di unirmi a questa festa: la parola Festa indica, già anche solo nell’uso più comune, un giorno di riposo, di vacanza. La Festa si celebra come interruzione, come attimo comunitario entro cui il lavoro è bandito. Nella Festa il riposare, nel senso di essere improduttivi, non è una colpa ma diviene quasi un dovere.
Penso che questa fine di lockdown sia invece quanto di più lontano dalla Festa, poiché ciò che lo domina è soltanto la frenesia, la competizione, la gara per arrivare primi che torna saldamente al comando dell’esistenza.
Ripartire è il termine di questo periodo, uno slogan che sembra quasi propaganda nella sua ripetizione incessante. “Riparti, riparti, riparti”, che tu sia la Nazione, il Lavoratore, il Padrone, l’importante è che la tua Festa sia guastata, ricordandoti che l’accadere del riposo andrà pagato caro, perché fuori dalle mura domestiche tutto ha un prezzo.
Certo, anche il confinamento, la distanza sociale, lo stare-chiusi-in-casa merita un pensiero sufficientemente profondo, non soltanto un incondizionato elogio. Però ecco, ho la sensazione che quel periodo poteva almeno insegnarci qualcosa, in una dimensione magari ridotta e parziale, però qualcosa se ne poteva e doveva trarre…


A. B: Guarda, ho sinceramente un po’ di timore a confessarlo, ma a me l’idea di “ripartire”, a tutta velocità, con ritmi incessanti e susseguirsi di impegni, spostamenti, ansie… mi crea disagio, inquietudine; una parte di me, lo ammetto, vorrebbe restare in casa ancora un po’.

Però io, devo dirlo, posso considerarmi fortunato. Sono figlio di due dipendenti pubblici, che lo stipendio non hanno mai smesso di prenderlo (e tra l’altro per questo sono considerati “privilegiati”, quando dovrebbe essere la normalità), e fortunatamente ce la siamo cavata bene.

Ma questa ripartenza per i più significa innanzitutto poter tornare a lavorare, e quindi a guadagnarsi quanto serve per vivere. Anche se questo significa, appunto, “ripartire” a tutta velocità, e riprendere la stressante routine quotidiana, a ricominciare movimenti che i muscoli avevano scordato.

Alla luce di questo, non posso che fermarmi a riflettere. Perché? Perché la Festa, come la intendi tu, cioè il riposo, la vacanza, che poi è la parte più bella della vita, quella a cui tutti aspirano durante tutto l’anno, perché questa Festa, deve avere come conseguenza nefasta e ineludibile il rischio, che in troppi hanno potuto vivere sulla propria pelle, di non riuscire neanche a comprarsi un pasto?

Perché invece, per poter vivere, o per lo meno sopravvivere, ci è necessario dover correre così tanto, tutto il giorno, tutti i giorni, senza sosta?

La mia mente non riesce proprio a capirlo.

Mio nonno mi avrebbe detto che la vita è fatica, che gli “agi” vanno conquistati, guadagnati col sudore della fronte.

Eppure le nuove tecnologie, hanno reso tutto così tanto più facile, tanti lavori superflui. E allora c’è davvero ancora bisogno di tutta questa fatica?

S. Z: Credo che la domanda sul perché sia necessario correre per sopravvivere sia davvero centrale.
Corriamo per espiare una colpa e per colmare il debito che tale colpa già sempre ci impone.
Insisto molto su come il paradigma di tutto ciò sia sempre politico ma al tempo stesso esistenziale, agendo ad un livello più profondo e totale, che investe politicamente l’interezza dell’esistenza modificando le strutture stesse dell’uomo. La costruzione di disagio e inquietudine è un’operazione incredibilmente radicale, specie in un’epoca in cui, tale costruzione, non ha alcuna tinta teologica: il timore non viene più da Dio, ma dal tuo simile, dall’Altro di fianco a te che, in ogni momento, potrà e forse dovrà saltarti addosso per superarti con ogni mezzo.
Chi è sconfitto da tutto ciò è colpevole, non ha colmato il debito assegnatogli fin dalla nascita, debito che, pur essendo eminentemente economico e finanziario, agisce ad un livello più profondo, un livello esistenziale appunto.
È davvero colmabile questo debito? O forse la sua apparente calcolabile colmabilità economica è la sua forza nascosta?
Come dici tu, la Festa porta con sé oggi soltanto un alito gelido: il rischio del fallimento è la sua ombra. Ed è verissimo che chi è più colpito da questo risvolto inquietante arriva a non sapere nemmeno come nutrire i propri figli. La povertà di costoro non è però il risultato di un sistema che su questa povertà si regge e si fonda, quanto piuttosto una colpa individuale. “Nella gara per colmare il debito non sei stato all’altezza”, questo oggi dice la povertà!
Posso rispondere ai tuoi quesiti soltanto continuando a domandare: c’è ancora bisogno di questo mondo? Ci sarà ancora bisogno di fatica in un mondo che non è ancora ? Il progresso tecnologico proprio di quest’epoca non porterà allo sfruttamento incondizionato di questa terra da parte dell’uomo e quindi allo sfruttamento dell’uomo stesso? Il consumatore, in tutti i sensi, non è già sempre il consumato? Quanto potrà logorarci ancora quella fatica esistenziale priva di sonno e di riposo?

A. B: Le domande sono molte e complesse, e richiedono un’argomentazione articolata. Proverò a dare una mia lettura in maniera più ordinata e chiara possibile.
Mi chiedi se c’è ancora bisogno di questo mondo. La risposta che do è secca e decisa: no. E aggiungo, che se il mondo che verrà non sarà profondamente diverso, di noi non potrà che restare un cumulo di cellule, totalmente privato della sfera emotiva, intellettiva, quella umana insomma, totalmente asservito alla necessità di sanare quel debito, e per questo quasi automatizzato.
Ma questa mi sembra, oggettivamente, una prospettiva poco verosimile. Spero di poter dire che sia del tutto più probabile che l’Uomo sia in grado, con un colpo di reni improvviso, di riprendersi la sua sfera migliore, di trovare il modo di continuare a far Festa.
Ci sarà bisogno di fatica?
Do una doppia risposta. La fatica del terzo millennio, è una fatica sui generis, una fatica data da dolori da irrigidimento muscolare, accumulo di stress mentale, sempre più spesso somatizzato in calvizie, disfunzione erettile, stati d’ansia permanente; la marsina stretta dei primi del ‘900 stringeva già il petto del professor Gori, oggi è una cravatta che sopra la collottola strizza le carotidi di camminatori incessanti che neanche una giornata di pioggia sa fermare. Ecco di questa fatica no, non c’è più bisogno, perché è una fatica che ci inaridisce e ci prosciuga, che ci consuma, dandoci l’impressione di essere noi a consumare.
Il contadino con la pioggia resta in casa. Magari esce il giorno dopo, per riparare i danni del vento.
Ecco, la fatica della terra, quella che ti fa sentire il contatto con ciò che siamo, con ciò da cui veniamo, e dove un giorno ritorneremo, tutti, quella è una fatica che fa sentire vivi, e rinvigorisce, e rafforza. Certo, rispetto a quest’altra fatica, la tecnologia può essere molto utile, può alleviarci qualche mal di schiena. Può aiutarci ad avere molto, molto più tempo, per fare Festa.
Ma purché non ci privi del tutto del nostro Lavoro, nell’accezione più pura ed originaria del termine, il Lavoro che serve a trasformare la terra, a renderla luogo accogliente, e madre nutrente. Questo è importante. Più tempo. Meno tempo per Lavorare, e per fare un Lavoro diverso. Più tempo per fare Festa. Questa la mia tensione.
E così impareremo anche cosa significa rispettarla, questa terra, e impareremo a rispettare di più noi stessi, come individui, e come comunità.

S. Z: Il ritorno alla Terra ci rammemora molto: ci ricorda che siamo mortali, ci ricorda che siamo finiti, ci ricorda i nostri limiti. Ci ricorda però anche la comunanza originaria di questa Terra, non creata per erigere muri, steccati, barriere.
Questo richiamo alla ruralità testimonia un passaggio che, più che storico, è di pensiero: da quando il contadino erige recinti per difendere la sua proprietà, egli non è più contadino, ma si avvia a divenire qualcosa d’altro. La spontaneità di ciò che cresce senza fondamento viene sostituita dal calcolo dei costi e dei benefici, della difesa di uno spazio quantificato e reso produttivo. Mi si dirà che anche prima dell’avvento delle recinzioni si calcolava il raccolto per non morire di fame: da un punto di vista storiografico questo è esatto.
Ma a partire dal pensiero secondo me cambia qualcosa, e torniamo qui alla questione della Festa. Il “calcolo” precedente all’erigere recinti, può davvero definirsi tale? Rientra forse in una previsione produttiva? O è invece il mettersi in ascolto della Terra e del Cielo nella loro coappartenenza?
Atto crudo e che in molti oggi condannerebbero, l’uccisione del maiale era l’Evento di Festa per eccellenza, l’interruzione della fatica ma anche il ringraziamento alla Terra e al Cielo. Ciò vale anche più in generale per le molte Feste contadine che celebravano l’andamento del raccolto.
Da quando la terra viene invece divisa, amministrata, sottomessa a scopi produttivi, resa spazio di profitto, tutto ciò viene inevitabilmente dimenticato. La Terra diventa un materiale, un elemento come altri, su cui perpetrare lo sfruttamento ed il dominio incondizionato.
Se prima poteva essere benedetta, nei giorni propizi, e maledetta, nei giorni nefasti, oggi la maledizione è l’unica possibilità: maledire una fatica insensata, per un padrone che paga 1€ l’ora. Entra in campo quella fatica di cui parlavi tu, essenzialmente diversa, assolutamente non originaria, una fatica che non domanda e non ricorda nulla, che ci fa soltanto dimenticare di essere umani, finiti, mortali.
Credo che questa pandemia ci abbia bruscamente ricordato la nostra essenziale finitezza, da questo il Mondo che verrà dovrebbe trarre una lezione, un Mondo in cui la Terra è prima di tutto Comune, quella comunanza che non è una spartizione ma bensì una radicale espropriazione che la rende non appropriabile da nessun Mortale. A quel punto, ascoltando la spontaneità del crescere dei suoi doni, sarà una Festa nella sua piena essenza, una Festa che benedice la fatica di chi ascolta, di chi apre il proprio campo invece di recintarlo, di chi festeggia per il Cibo donato, sudato e, soprattutto, condiviso.


A. B: Tra l’altro lo sfruttamento della Terra a scopi produttivi, e quindi di fatto la sua trasformazione da foresta a industria, da campagna a città, da terra porosa che si irriga d’acqua a cemento impermeabile e assassino, porta la Terra a difendersi, e a provare ad aggredire letalmente chi la tradisce. I biologi indicano il covid come una reazione naturale dell’ecosistema alla troppa invasività di una specie, quella umana, che spesso si dimentica di essere specie tra le speci, specifica, non poi così speciale.
Sai, durante questa quarantena, quando gli altri mille pensieri tipici della “normalità” hanno per forza di cose lasciato spazio a riflessioni più profonde, mi sono domandato noi, in questa esistenza, su questa Terra, cosa dobbiamo starci a fare?
Si tratta di passare in qualche modo il tempo che ci è dato?
E allora perché la paura della morte.
Si tratta invece di dover riuscire a raggiungere, nell’arco della vita, alcuni obiettivi, e per questo ci serve più tempo possibile, vissuto con un corpo massimamente efficiente? E quali sono questi obiettivi.
Vorrei il tuo parere.


S. Z: La domanda è fondamentalmente quella sul senso della vita, su un’esistenza colma di senso. Converrai con me che si tratta forse del quesito dei quesiti, di fianco a pochi altri per profondità e rilevanza.
Penso che, per dirla con un termine inglese che renda bene l’idea, l’achievement, nel senso di realizzazione, raggiungimento di obiettivi, sia quanto di più propriamente attuale e solidale a quest’epoca.
Si tratta di pensare da un’altra distanza, in modo forse più originario.
Credo che noi, su questa Terra ci siamo per qualcosa di più “alto”, forse di trascendente. Ciò su cui sicuramente dobbiamo meditare è questa paura della morte a cui anche tu ti riferivi: la Morte è la più propria possibilità dell’essere umano, nasciamo già abbastanza vecchi per morire, per parafrasare un pensatore a me molto caro.
Ecco, farsi carico della propria mortalità, quindi della propria finitezza, è il primo passo non tanto per rispondere, quanto piuttosto per domandare sufficientemente la domanda sull’esistenza.
Nell’epoca del Capitale non si pone nemmeno la domanda sull’esistenza, non siamo nella condizione di rispondervi perché non siamo nemmeno in grado di domandarla.
Pensare in maniera originaria il rapporto con la morte è il primo passo per iniziare a interrogare adeguatamente l’esistenza.
Tuttavia oggi siamo nella Notte più profonda riguardo ciò, la responsabilità diventa allora quella di custodire già solo la possibilità di domande come questa: custodire dall’epoca dell’illimitato, dal mondo che non conosce più un fuori, dal tempo che non pensa un Altro Inizio.

A. B: E custodire tutto questo è compito della politica, oggi forse ancora più di allora.
Che non deve avere paura di essere un faro, di pronunciare frasi in controtendenza, forse incomprensibili.
Se non saremo in grado la notte non avrà più fine e resteremo al buio, per sempre…

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