Di Simone Zanello e Agostino Biondo
S. Z: La fine di questo lockdown è stata salutata da tutti come una grande festa: comprensibile ma non del tutto condivisibile, almeno su un piano politico-esistenziale, per quanto mi riguarda.
È chiaro che per molti rivedere i propri amici, tornare a incontrarsi, spendere del tempo in compagnia è stata una vera e propria liberazione.
D’altro canto, però, non mi sento di unirmi a questa festa: la parola Festa indica, già anche solo nell’uso più comune, un giorno di riposo, di vacanza. La Festa si celebra come interruzione, come attimo comunitario entro cui il lavoro è bandito. Nella Festa il riposare, nel senso di essere improduttivi, non è una colpa ma diviene quasi un dovere.
Penso che questa fine di lockdown sia invece quanto di più lontano dalla Festa, poiché ciò che lo domina è soltanto la frenesia, la competizione, la gara per arrivare primi che torna saldamente al comando dell’esistenza.
Ripartire è il termine di questo periodo, uno slogan che sembra quasi propaganda nella sua ripetizione incessante. “Riparti, riparti, riparti”, che tu sia la Nazione, il Lavoratore, il Padrone, l’importante è che la tua Festa sia guastata, ricordandoti che l’accadere del riposo andrà pagato caro, perché fuori dalle mura domestiche tutto ha un prezzo.
Certo, anche il confinamento, la distanza sociale, lo stare-chiusi-in-casa merita un pensiero sufficientemente profondo, non soltanto un incondizionato elogio. Però ecco, ho la sensazione che quel periodo poteva almeno insegnarci qualcosa, in una dimensione magari ridotta e parziale, però qualcosa se ne poteva e doveva trarre…
A. B: Guarda, ho sinceramente un po’ di timore a confessarlo, ma a me l’idea di “ripartire”, a tutta velocità, con ritmi incessanti e susseguirsi di impegni, spostamenti, ansie… mi crea disagio, inquietudine; una parte di me, lo ammetto, vorrebbe restare in casa ancora un po’.
Però io, devo dirlo, posso considerarmi fortunato. Sono figlio di due dipendenti pubblici, che lo stipendio non hanno mai smesso di prenderlo (e tra l’altro per questo sono considerati “privilegiati”, quando dovrebbe essere la normalità), e fortunatamente ce la siamo cavata bene.
Ma questa ripartenza per i più significa innanzitutto poter tornare a lavorare, e quindi a guadagnarsi quanto serve per vivere. Anche se questo significa, appunto, “ripartire” a tutta velocità, e riprendere la stressante routine quotidiana, a ricominciare movimenti che i muscoli avevano scordato.
Alla luce di questo, non posso che fermarmi a riflettere. Perché? Perché la Festa, come la intendi tu, cioè il riposo, la vacanza, che poi è la parte più bella della vita, quella a cui tutti aspirano durante tutto l’anno, perché questa Festa, deve avere come conseguenza nefasta e ineludibile il rischio, che in troppi hanno potuto vivere sulla propria pelle, di non riuscire neanche a comprarsi un pasto?
Perché invece, per poter vivere, o per lo meno sopravvivere, ci è necessario dover correre così tanto, tutto il giorno, tutti i giorni, senza sosta?
La mia mente non riesce proprio a capirlo.
Mio nonno mi avrebbe detto che la vita è fatica, che gli “agi” vanno conquistati, guadagnati col sudore della fronte.
Eppure le nuove tecnologie, hanno reso
tutto così tanto più facile, tanti lavori superflui. E allora c’è
davvero ancora bisogno di tutta questa fatica?
S. Z:
Credo che la domanda sul perché sia necessario correre per
sopravvivere sia davvero centrale.
Corriamo per espiare una colpa
e per colmare il debito che tale colpa già sempre ci impone.
Insisto molto su come il paradigma di tutto ciò sia sempre
politico ma al tempo stesso esistenziale, agendo ad un livello più
profondo e totale, che investe politicamente l’interezza
dell’esistenza modificando le strutture stesse dell’uomo. La
costruzione di disagio e inquietudine è un’operazione
incredibilmente radicale, specie in un’epoca in cui, tale
costruzione, non ha alcuna tinta teologica: il timore non viene più
da Dio, ma dal tuo simile, dall’Altro di fianco a te che, in ogni
momento, potrà e forse dovrà saltarti addosso per superarti con
ogni mezzo.
Chi è sconfitto da tutto ciò è colpevole, non ha
colmato il debito assegnatogli fin dalla nascita, debito che, pur
essendo eminentemente economico e finanziario, agisce ad un livello
più profondo, un livello esistenziale appunto.
È davvero
colmabile questo debito? O forse la sua apparente calcolabile
colmabilità economica è la sua forza nascosta?
Come dici tu, la
Festa porta con sé oggi soltanto un alito gelido: il rischio del
fallimento è la sua ombra. Ed è verissimo che chi è più colpito
da questo risvolto inquietante arriva a non sapere nemmeno come
nutrire i propri figli. La povertà di costoro non è però il
risultato di un sistema che su questa povertà si regge e si fonda,
quanto piuttosto una colpa individuale. “Nella gara per colmare
il debito non sei stato all’altezza”, questo oggi dice la
povertà!
Posso rispondere ai tuoi quesiti soltanto continuando a
domandare: c’è ancora bisogno di questo mondo? Ci sarà ancora
bisogno di fatica in un mondo che non è ancora ? Il progresso
tecnologico proprio di quest’epoca non porterà allo sfruttamento
incondizionato di questa terra da parte dell’uomo e quindi allo
sfruttamento dell’uomo stesso? Il consumatore, in tutti i sensi, non
è già sempre il consumato? Quanto potrà logorarci ancora quella
fatica esistenziale priva di sonno e di riposo?
A. B: Le domande sono molte e complesse, e
richiedono un’argomentazione articolata. Proverò a dare una mia
lettura in maniera più ordinata e chiara possibile.
Mi chiedi se
c’è ancora bisogno di questo mondo. La risposta che do è secca e
decisa: no. E aggiungo, che se il mondo che verrà non sarà
profondamente diverso, di noi non potrà che restare un cumulo di
cellule, totalmente privato della sfera emotiva, intellettiva, quella
umana insomma, totalmente asservito alla necessità di sanare quel
debito, e per questo quasi automatizzato.
Ma questa mi sembra,
oggettivamente, una prospettiva poco verosimile. Spero di poter dire
che sia del tutto più probabile che l’Uomo sia in grado, con un
colpo di reni improvviso, di riprendersi la sua sfera migliore, di
trovare il modo di continuare a far Festa.
Ci sarà bisogno di
fatica?
Do una doppia risposta. La fatica del terzo millennio, è
una fatica sui generis, una fatica data da dolori da irrigidimento
muscolare, accumulo di stress mentale, sempre più spesso somatizzato
in calvizie, disfunzione erettile, stati d’ansia permanente; la
marsina stretta dei primi del ‘900 stringeva già il petto del
professor Gori, oggi è una cravatta che sopra la collottola strizza
le carotidi di camminatori incessanti che neanche una giornata di
pioggia sa fermare. Ecco di questa fatica no, non c’è più bisogno,
perché è una fatica che ci inaridisce e ci prosciuga, che ci
consuma, dandoci l’impressione di essere noi a consumare.
Il
contadino con la pioggia resta in casa. Magari esce il giorno dopo,
per riparare i danni del vento.
Ecco, la fatica della terra,
quella che ti fa sentire il contatto con ciò che siamo, con ciò da
cui veniamo, e dove un giorno ritorneremo, tutti, quella è una
fatica che fa sentire vivi, e rinvigorisce, e rafforza. Certo,
rispetto a quest’altra fatica, la tecnologia può essere molto utile,
può alleviarci qualche mal di schiena. Può aiutarci ad avere molto,
molto più tempo, per fare Festa.
Ma purché non ci privi del
tutto del nostro Lavoro, nell’accezione più pura ed originaria del
termine, il Lavoro che serve a trasformare la terra, a renderla luogo
accogliente, e madre nutrente. Questo è importante. Più tempo. Meno
tempo per Lavorare, e per fare un Lavoro diverso. Più tempo per fare
Festa. Questa la mia tensione.
E così impareremo anche cosa
significa rispettarla, questa terra, e impareremo a rispettare di più
noi stessi, come individui, e come comunità.
S. Z:
Il ritorno alla Terra ci rammemora molto: ci ricorda che siamo
mortali, ci ricorda che siamo finiti, ci ricorda i nostri limiti. Ci
ricorda però anche la comunanza originaria di questa Terra, non
creata per erigere muri, steccati, barriere.
Questo richiamo alla
ruralità testimonia un passaggio che, più che storico, è di
pensiero: da quando il contadino erige recinti per difendere la sua
proprietà, egli non è più contadino, ma si avvia a divenire
qualcosa d’altro. La spontaneità di ciò che cresce senza fondamento
viene sostituita dal calcolo dei costi e dei benefici, della difesa
di uno spazio quantificato e reso produttivo. Mi si dirà che anche
prima dell’avvento delle recinzioni si calcolava il raccolto per non
morire di fame: da un punto di vista storiografico questo è esatto.
Ma a partire dal pensiero secondo me cambia qualcosa, e torniamo
qui alla questione della Festa. Il “calcolo” precedente
all’erigere recinti, può davvero definirsi tale? Rientra forse in
una previsione produttiva? O è invece il mettersi in ascolto della
Terra e del Cielo nella loro coappartenenza?
Atto crudo e che in
molti oggi condannerebbero, l’uccisione del maiale era l’Evento di
Festa per eccellenza, l’interruzione della fatica ma anche il
ringraziamento alla Terra e al Cielo. Ciò vale anche più in
generale per le molte Feste contadine che celebravano l’andamento del
raccolto.
Da quando la terra viene invece divisa, amministrata,
sottomessa a scopi produttivi, resa spazio di profitto, tutto ciò
viene inevitabilmente dimenticato. La Terra diventa un materiale, un
elemento come altri, su cui perpetrare lo sfruttamento ed il dominio
incondizionato.
Se prima poteva essere benedetta, nei giorni
propizi, e maledetta, nei giorni nefasti, oggi la maledizione è
l’unica possibilità: maledire una fatica insensata, per un padrone
che paga 1€ l’ora. Entra in campo quella fatica di cui parlavi tu,
essenzialmente diversa, assolutamente non originaria, una fatica che
non domanda e non ricorda nulla, che ci fa soltanto dimenticare di
essere umani, finiti, mortali.
Credo che questa pandemia ci abbia
bruscamente ricordato la nostra essenziale finitezza, da questo il
Mondo che verrà dovrebbe trarre una lezione, un Mondo in cui la
Terra è prima di tutto Comune, quella comunanza che non è una
spartizione ma bensì una radicale espropriazione che la rende non
appropriabile da nessun Mortale. A quel punto, ascoltando la
spontaneità del crescere dei suoi doni, sarà una Festa nella sua
piena essenza, una Festa che benedice la fatica di chi ascolta, di
chi apre il proprio campo invece di recintarlo, di chi festeggia per
il Cibo donato, sudato e, soprattutto, condiviso.
A. B: Tra l’altro lo sfruttamento della Terra a
scopi produttivi, e quindi di fatto la sua trasformazione da foresta
a industria, da campagna a città, da terra porosa che si irriga
d’acqua a cemento impermeabile e assassino, porta la Terra a
difendersi, e a provare ad aggredire letalmente chi la tradisce. I
biologi indicano il covid come una reazione naturale dell’ecosistema
alla troppa invasività di una specie, quella umana, che spesso si
dimentica di essere specie tra le speci, specifica, non poi così
speciale.
Sai, durante questa quarantena, quando gli altri mille
pensieri tipici della “normalità” hanno per forza di cose
lasciato spazio a riflessioni più profonde, mi sono domandato noi,
in questa esistenza, su questa Terra, cosa dobbiamo starci a fare?
Si
tratta di passare in qualche modo il tempo che ci è dato?
E
allora perché la paura della morte.
Si tratta invece di dover
riuscire a raggiungere, nell’arco della vita, alcuni obiettivi, e
per questo ci serve più tempo possibile, vissuto con un corpo
massimamente efficiente? E quali sono questi obiettivi.
Vorrei il
tuo parere.
S. Z: La domanda è fondamentalmente quella sul
senso della vita, su un’esistenza colma di senso. Converrai con me
che si tratta forse del quesito dei quesiti, di fianco a pochi altri
per profondità e rilevanza.
Penso che, per dirla con un termine
inglese che renda bene l’idea, l’achievement, nel senso di
realizzazione, raggiungimento di obiettivi, sia quanto di più
propriamente attuale e solidale a quest’epoca.
Si tratta di
pensare da un’altra distanza, in modo forse più originario.
Credo
che noi, su questa Terra ci siamo per qualcosa di più “alto”,
forse di trascendente. Ciò su cui sicuramente dobbiamo meditare è
questa paura della morte a cui anche tu ti riferivi: la Morte è la
più propria possibilità dell’essere umano, nasciamo già abbastanza
vecchi per morire, per parafrasare un pensatore a me molto caro.
Ecco, farsi carico della propria mortalità, quindi della propria
finitezza, è il primo passo non tanto per rispondere, quanto
piuttosto per domandare sufficientemente la domanda sull’esistenza.
Nell’epoca del Capitale non si pone nemmeno la domanda
sull’esistenza, non siamo nella condizione di rispondervi perché non
siamo nemmeno in grado di domandarla.
Pensare in maniera
originaria il rapporto con la morte è il primo passo per iniziare a
interrogare adeguatamente l’esistenza.
Tuttavia oggi siamo nella
Notte più profonda riguardo ciò, la responsabilità diventa allora
quella di custodire già solo la possibilità di domande come questa:
custodire dall’epoca dell’illimitato, dal mondo che non conosce più
un fuori, dal tempo che non pensa un Altro Inizio.
A. B: E custodire tutto questo è compito della
politica, oggi forse ancora più di allora.
Che non deve avere
paura di essere un faro, di pronunciare frasi in controtendenza,
forse incomprensibili.
Se non saremo in grado la notte non avrà
più fine e resteremo al buio, per sempre…