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venerdì , 19 Aprile 2024
Socialismo e Femminismo

Femminismo e Socialismo

Il femminismo ha molti nemici. Chi sostiene che sia un capriccio femminile di fronte alle inenarrabili conquiste del secolo, chi lo addita come “maschilismo al femminile” o chi, molto più apertamente, lo ritiene stupido e insensato. Le resistenze della società sono dure a morire, perfino nell’Occidente scintillante del progresso sociale. Il vento sta soffiando dalla parte giusta: ciò che solo 30 anni sarebbe stato etichettato come “utopistico” oggi vede la luce, e reclama con forza le sue idee. Tuttavia, ancora ci troviamo di fronte a squilibri anacronistici, e a più sottili differenze quasi impercettibili, ma di grande sostanza. Movimenti come femen o non una di meno hanno dato una necessaria spinta propulsiva ad un sistema che, nonostante i passi in avanti, è maschilista fino alla radice. Per capire come individuare i nodi nevralgici delle oppressioni sessiste, dal linguaggio alla morale, è necessario scendere in profondità, dentro il femminismo stesso.

Agli albori del femminismo

Olympe de Gouges è stata una delle prime femministe della storia. Con la sua opera Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, pubblicata nel 1791, evidenziò per la prima volta il problema del mancato ruolo pubblico della donna, relegata al focolare domestico. Più di 50 anni dopo nasce il filone del femminismo liberale con Harriet Taylor. Ed è proprio qui che inizia la discesa all’interno delle viscere della società. La Taylor, attraverso due saggi pubblicati insieme a John Stuart Mill, L’emancipazione delle donne del 1851 e L’asservimento delle donne del 1869, sostiene che le donne hanno diritto alle stesse opportunità degli uomini. Harriet Taylor si scaglia in queste opere contro la sudditanza storica imposta dagli uomini alle donne, che le ha relegate nella casa in relazione al loro compito di madri e angeli del focolare. In particolare, Taylor sostiene l’emancipazione delle donne dalla riproduzione – la schiavitù della maternità – e dal lavoro di casa, per un accesso all’istruzione, all’esercizio delle professioni, a ruoli di potere pubblico e politico al pari degli uomini.

Idee dirompenti considerate sovversive all’epoca, ma la cui eredità ha permesso un grande progresso sociale. Ma un problema sorge a questo punto: i diritti che il femminismo liberale della Taylor afferma, sono diritti formali. Non viene analizzata la condizione della donna alla base, non ci si interroga sulle cause strutturali e sociali della sua storica subalternità. Le donne devono, in questo senso, inseguire gli uomini e diventare come loro. È una tendenza che vediamo ancora oggi.

L’empowerment liberale

Il femminismo liberale, infatti, si fonda su un modello di empowerment. La donna deve andare in alto, fare carriera, ambire a posizioni di vertice occupate solo dagli uomini. La self-made woman che diventa CEO di una grande corporation, o direttrice di un’importante banca. La rappresentazione lampante di questa tendenza è espressa da Freeda, un progetto che insiste molto sulle esperienze personali di singole donne di successo che sono emerse in un mondo a stampo maschile. Il problema di questa visione è che si accetta implicitamente un sistema socio-economico gerarchico, fatto di alto e basso, di ruoli più importanti e ruoli meno importanti. Così si legittima silenziosamente lo sfruttamento del più forte sul più debole a tutti i livelli. Il fallimento di questo modello è messo in luce dalle ancora abissali differenze salariali tra uomini e donne in tutto il mondo, e da più sottili forme di sessismo nei luoghi di lavoro.

Il femminismo radicale

A questo punto interviene il femminismo radicale, chiamato così perché vuole eliminare le disuguaglianze di genere “alla radice”. La differenza fondamentale tra il femminismo radicale e quello liberale, è che il primo riconosce l’esistenza del patriarcato e si batte per la sua distruzione. Il matrimonio, la monogamia e l’eterosessualità sono istituti sociali creati dagli uomini: il matrimonio come atto di proprietà con cui l’uomo compra la donna. Come ha detto Lévi-Strauss: “Il legame di reciprocità su cui si basa il matrimonio non è stabilito tra uomini e donne, ma tra uomini per mezzo di donne che ne sono soltanto la principale occasione”. La monogamia come istituto riproduttivo per confinare le donne al ruolo di procreatrici. L’eterosessualità , sulla falsariga della monogamia, come confinamento della donna all’interno del perimetro della famiglia tradizionale e quindi delle preferenze funzionali all’eteropatriarcato.

Le differenze tra femminismo radicale e femminismo liberale emergono anche in altri ambiti. Nella pornografia e nella prostituzione, ad esempio, le femministe liberali vedono una libera e volontaria espressione della donna, che fa del proprio corpo quello che vuole. Il femminismo radicale, pur esaltando la stessa libertà, critica aspramente la pornografia, perché espressione di un pubblico essenzialmente maschile: la pornografia obbliga la donna a ricoprire ruoli confezionati sui desideri degli uomini, e quindi sottomessi e/o passivi di violenza. Nella prostituzione, le femministe radicali vedono un altro sistema di oppressione: le prostitute sono (quasi sempre) donne in condizioni socio-economiche precarie, obbligate dalla povertà. Bisogna quindi colpire il problema alla radice, eradicare un complesso di relazioni subordinate e svantaggiose.

Manca ancora qualcosa

Le femministe radicali superano quelle liberali, andando a scavare ancora più in profondità. Ma ancora non basta: ai diritti formali conquistati dalle femministe liberali, e alla messa in discussione dei rapporti sociali da parte delle femministe radicali, manca ancora un’analisi dei rapporti economici e di produzione. È proprio qui che si manifesta la necessità di un’alleanza tra le rivendicazioni femministe ed i principi socialisti. Ma attenzione, è vero anche il contrario. Il femminismo ha bisogno del socialismo, ed il socialismo non può definirsi tale se non è femminista.

“Un’etica veramente socialista, cioè che cerchi la giustizia senza sopprimere la libertà, che imponga agli individui degli oneri senza abolire l’individualità, è resa molto precaria dai problemi che pone la condizione della donna”. Parola di Simone De Beauvoir, considerata la più grande femminista del ‘900. Dall’altra parte, il problema con il femminismo radicale, da un punto di vista socialista, è che non va oltre. Rimane confinato nell’universalità della supremazia maschile. Tutti i sistemi sociali sono patriarcali: l’imperialismo, il militarismo e il capitalismo sono semplicemente espressioni maschili. Mancando una critica al sistema capitalista, le femministe radicali, come quelle liberali, non centrano ancora il cuore del problema, o comunque non descrivono la realtà in modo globale. La proprietà privata, dal momento in cui è nata, ha permesso all’uomo di diventare padrone di schiavi e terre, ma anche delle donne.

Il legame tra socialismo e femminismo

“Così i destini della donna e del socialismo sono intimamente legati. La donna e il proletario, sono ambedue degli oppressi” afferma August Bebel. Marx ed Engels pensavano un mondo privo di ingiustizie, dove anche l’oppressione della donna sarebbe stata cancellata, e la società socialista si sarebbe realizzata eliminando la distinzione tra uomini e donne. Engels, in particolare, nella suo opera Origine della Famiglia, dà la colpa della condizione della donna all’evoluzione della tecnica, e nel passaggio dalla comunità alla proprietà privata. La sottomissione delle donne si è generata nei rapporti economici di produzione, con cui l’uomo l’ha schiavizzata al pari del padrone con il proletario. Il capitalismo, in sé, essendo un sistema gerarchico basato su ruoli standardizzati, avrebbe legittimato questa sottomissione.

Ma anche le analisi di Marx ed Engels sono incomplete. Engels, in particolare, non spiega il carattere particolare di questa oppressione, riducendola a mero conflitto di classe. Nella scissione delle classi non c’è fondamento biologico, a differenza del proletario con il padrone. La stessa URSS, infatti, nonostante avesse tra i suoi principi cardine l’abolizione della famiglia, ha dovuto cambiare radicalmente politica nel corso dei decenni, in relazione alle esigenze produttive (in primis nel periodo dei piani quinquennali). Nel Partito Comunista Italiano si è sempre respirata una certa ostilità nei confronti delle donne, espressa dal richiamo esplicito alla famiglia tradizionale contro “le decadenze borghesi dell’Occidente”. Enrico Berlinguer, che pure all’inizio della carriera politica si mostrava refrattario a qualsiasi tipo di femminismo, ha cambiato radicalmente idea nel corso della sua vita, arrivando a difendere con forza la necessità di raggiungere la parità dei sessi. Una buona parte degli ambienti comunisti lo osteggiava per questo, soprattutto quando propose di istituire delle liste di sole donne o quando si oppose al maschilismo del Partito.

Un socialismo imperfetto

La sensazione è che, nonostante il comunismo abbia garantito un’uguaglianza di genere maggiore rispetto all’antagonista capitalista, abbia peccato di coraggio, e non sia andato in profondità. “Marx, essendosi concentrato principalmente sul lavoro di fabbrica, ha finito con il trascurare il «lavoro socialmente necessario» svolto dalle donne fra le mura domestiche” afferma Silvia Federici, autrice di Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx. Sempre Federici ci dice: “Egli (Marx) riconosce che il processo di riproduzione della forza lavoro è parte integrante della produzione di valore e dell’accumulazione capitalista (“la produzione del mezzo di produzione più indispensabile al capitalista, il lavoratore stesso”). Ma, paradossalmente da un punto di vista femminista, egli considera che questa riproduzione resta interamente pensabile a partire dal processo di produzione delle merci, per dirlo altrimenti: il lavoratore percepisce un salario e con questo salario soddisfa i suoi bisogni vitali… Marx non riconosce mai che occorre del lavoro, del lavoro di riproduzione, per cucinare, per pulire, per procreare.” L’estrazione del plusvalore nelle fabbriche a danno dei lavoratori, avviene anche entro le mure domestiche a danno della donna.

Ma l’analisi della Federici non punta ad allontanare socialismo e femminismo, al contrario. Il marxismo, infatti, dimostrando come la natura umana non possa essere considerata eterna e immutabile ma al contrario come esito di pratiche sociali storicamente determinate sostiene il femminismo nel rifiuto di ogni forma di naturalizzazione della condizione femminile e tutto ciò che ne deriva: “in quanto femministe e in quanto donne” – afferma Federici – “noi abbiamo lottato contro la naturalizzazione della femminilità in nome della quale si assegnano dei compiti, dei modi di essere, dei comportamenti”.

La missione comune del Socialismo e del Femminismo

Socialismo e femminismo sono idee che hanno faticato a spiccare il volo nel corso della storia. A entrambi mancava qualcosa, un elemento finale per combattere un nemico comune: l’oppressione dell’individuo sull’individuo. Come è possibile che non si siano alleati fin da subito? Ambedue hanno percorso una lunga strada, ricca di stravolgimenti e mutazioni genetiche. Il femminismo liberale ha dato la spinta iniziale, ed il femminismo radicale ne ha ampliato enormemente la portata. Il socialismo ha combattuto le diseguaglianze economiche in tutto il mondo, in difesa dei poveri e degli oppressi. Ora che si sono incontrati, socialismo e femminismo possono finalmente completarsi, come due tasselli sparsi nel terreno che cercavano di resistere alla pioggia. La stessa pioggia di eventi che li ha portati uno di fronte all’altro. Insieme, socialismo e femminismo possono essere davvero i difensori degli ultimi, per un mondo più giusto, più umano. Non esiste femminismo senza socialismo, non esiste socialismo senza femminismo.

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