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mercoledì , 24 Aprile 2024

Governo vs Regioni: cronache di un disastro annunciato

Michael Egidi

Dall’inizio di questo periodo catastrofico per l’Italia, e per il genere umano in generale, si è ripetuto spesso che “non si torna più indietro”, ovvero si è sviscerato come e perché, questa fase, possa rappresentare il punto d’inizio di una vera e propria rivoluzione, per alcuni culturale – che tocchi e trasformi i modelli di vita, di consumo, e la nostra sensibilità nell’entrare in contatto e interagire con l’ambiente circostante -, per altri, anche e non solo, politica.

Un po’ più “umilmente”, c’è chi inizia invece ad immaginare quali siano, nel contesto di un sistema che potrebbe finire per rappropriarsi pian piano del terreno che sta fin qui perdendo, le sostanziali modifiche che potremmo effettivamente riuscire a strappare a questa possibile (se non prevedibile) restaurazione.

Uno dei temi forse meno interessanti, ma che le vicende di questa crisi hanno permesso di porre inequivocabilmente sotto la luce dei riflettori, è la (contro)riforma del Titolo V della Costituzione.

Certo, sarebbe ingeneroso affermare che ci si accorge della necessità di rimettere mano a quella riforma (firmata centrosinistra, ed entrata in vigore nel 2001) solo oggi, giacché due sono stati i tentativi, bipartisan, di superarla. Ma sarebbe altrettanto ingenuo negare che quanto sta avvenendo in questa fase, nel rapporto tra Stato e Regioni, non abbia conferito nuova linfa vitale al ventennale dibattito.

Nel periodo che va dal 24 al 27 febbraio scorso – un po’ perché, certe storture costituzionali, prima o poi avrebbero dovuto manifestarsi in maniera eclatante, un po’ perché, se ogni febbraio non finiamo sulle testate nazionali, nelle Marche non siamo contenti – si consuma la vicenda che meglio rappresenta quel conflitto tra istituzioni cui stiamo assistendo quotidianamente.

La mattina del 24, il Presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, indìce una conferenza stampa straordinaria per annunciare l’imminente chiusura di scuole e università su tutto il territorio di sua competenza, ma non fa neanche in tempo a concludere la diretta Facebook (sigh), che riceve una telefonata al cellulare, niente meno che dal Presidente Conte. Tutto annullato, così, in diretta, per la somma gioia di Ceriscioli stesso. Nella prima parte del giorno seguente, avviene il colloquio tra il premier e i tutti i presidenti di regione. Pare si sia raggiunto un accordo ma, nuovo colpo di scena, nel pomeriggio, il governatore marchigiano, forte delle prerogative assegnategli dall’art.117 della Costituzione (appunto), diffonde l’ordinanza n.1, attraverso la quale, serra di nuovo tutto. Il Governo va su tutte le furie, si vocifera di commissariamenti e il Ministro Boccia annuncia di aver impugnato l’ordinanza, che effettivamente viene sospesa dal Tar Marche il giorno seguente. Passano un paio d’ore e Ceriscioli firma una nuova ordinanza, e, a causa dei 6 casi positivi al Covid-19 spuntati nella notte, questa volta non trova opposizione.

Il caso viene ovviamente, e irrimediabilmente, cavalcato da tutte le testate nazionali, e va a sommarsi alle diatribe già più o meno accennate tra il Governo e i governatori del nord, mostrando la fragilità di un sistema decentrato e semi-federale, che difficilmente si adatta alla gestione di un’emergenza.

A questo punto però, è bene chiarire che i dubbi che sorgono spontanei in questa situazione, non sono legati alle scelte specifiche del Presidente Ceriscioli (il quale, per altro, ha poi avuto ragione nel merito, avendo assistito poco dopo alla diffusione capillare delle medesime misure di contenimento su tutto il territorio nazionale), ma semmai alla confusione e conflittualità che la divisione delle competenze prevista dal Titolo V ha inevitabilmente comportato, sin dal principio.

Ci si chiede dunque se sia giusto lasciare la legislazione (seppur di dettaglio) di determinati aspetti fondamentali come la sanità (che oggi rappresenta in media l’80% della spesa di ogni Regione), a degli Enti che fin qui hanno mostrato più limiti che opportunità.

Perché, se ammettessimo che ciò sia giusto, dovremmo accettare, prendendo sempre il caso delle Marche, che lo stesso Presidente di Regione possa decidere di combattere una crisi che colpisce endemicamente tutta la nazione, convocando una specie di commissario straordinario personale, ovvero Guido Bertolaso (arrivato ad Ancona dalla Lombardia, dove svolge il medesimo incarico). E che si decida di far fronte all’emergenza, costruendo ex novo una struttura ospedaliera attraverso donazioni dei privati (donazioni che saranno raccolte non da un ente pubblico, ma dall’associazione privata dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, per cui garantisce lo stesso ex capo della Protezione Civile), senza minimamente prendere in considerazione l’idea di riaprire le 13 (tredici!) strutture pubbliche chiuse negli ultimi dieci anni, rimettendole poi a disposizione dei territorio. E la medesima procedura, ovviamente, vale anche per la Lombardia, dove la maxi struttura costruita ex novo, che avrebbe dovuto ospitare centinaia di pazienti, si è già rivelata un fallimento totale, oltre che un inutile sperpero di denaro (per fortuna non pubblico).

Dovremmo prendere atto, pacatamente, che la giunta della Sardegna designa 3 cliniche private per far fronte all’emergenza, garantendo ad esse, il prezzo richiesto dalle cliniche stesse, ovvero fino a 900 euro a posto letto, oltre alle forniture (o, più prevedibilmente, il rimborso) di tutti i medicinali, tamponi, test e dispositivi di protezione. Questo, senza andare a controllare quanti soldi siano stati versati alle medesime strutture nell’ultimo anno, perché sarebbe indecoroso.

Chiaramente non siamo così stolti da additare Solinas, Ceriscioli o Fontana, come se fossero essi il problema. Questi governatori rappresentano piuttosto piccoli pezzi di un ingranaggio che, nonostante l’olio (cash) con cui è stato ripetutamente inondato in questi vent’anni, continua imperterrito ad incepparsi, rischiando di far saltare tutto il motore.

Secondo uno studio condotto dalla CGIA di Mestre, dal 2000 al 2009, la spesa regionale è cresciuta del 75% a fronte di un’inflazione del 22,1%. Questo aspetto è fondamentale per capire quali siano davvero i danni di un riforma che ha previsto una certa libertà di spesa per le Regioni (pur mitigata da successive modifiche legislative), senza prevedere però una conseguente autonomia fiscale. Vale a dire che gli Enti territoriali possono spendere denaro che non hanno, poiché a coprire il loro debito interviene sostanzialmente l’amministrazione centrale. Da ciò ne consegue una clamorosa falla nel meccanismo di accountability, nonché una moltiplicazione di casi di corruzione (nel 2014, ¾ delle amministrazioni regionali risultavano sotto inchiesta per peculato o altri reati).

Problemi ulteriori sorgono poi nella produttività, con imprese e cittadini che si scontrano con una burocrazia differente di territorio in territorio (pensate anche solo agli albi di determinate professioni, riconosciute e regolate in maniera differente di regione in regione).

Se i motivi fin qui esposti non chiarissero a dovere l’esigenza di una linea di demarcazione chiara (e non solo in fase di gestione/comunicazione di crisi) nelle prerogative dell’amministrazione, aggiungiamo, dulcis in fundo, il continuo ricorso alla Corte Costituzionale che, per sanare i conflitti tra Stato e Regioni, tra il 2001 e il 2017 ha dovuto ricorrere a ben 2.110 sentenze.

Quest’ultimo è il motivo principale che ha spinto il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese ad esprimersi così, nel 2015, riguardo agli effetti della riforma del 2001:

“La Corte continua ad essere impegnata da questioni portate in via principale dal governo contro regioni e da regioni contro il governo. Si tratta di un lavoro modesto, di determinazione dei confini, che nasce dall’infelice formulazione della modifica costituzionale del 2001 e svilisce la funzione della Corte”, e che tra giudici, “ci confessiamo spesso sottovoce con i miei vicini di banco che le regioni andrebbero soppresse” perché qui si annidano “clientelismo, faciloneria, mani bucate, disprezzo per la cosa pubblica”

Non so voi, ma io solitamente, con Cassese, tendo ad essere d’accordo.

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