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venerdì , 19 Aprile 2024

Una soluzione costituzionalmente orientata per rompere le catene europee.

Il problema: l’incompatibilità di fondo fra trattati e Costituzione.

La pandemia di “covid19” e le sue ripercussioni prossime ed attuali sulla crisi italiana (peraltro mai veramente risolta se guardiamo al sud) possono darci lo spunto per riflettere sulla necessità di un altro modello di sviluppo, opposto a quello degli ultimi trent’anni, fatto di austerity, di arretramento costante del “welfare state”.

Una rinascita dello Stato sociale, è sempre più evidente, non si può attuare all’interno dell’attuale cornice normativa dei i trattati europei, specie se il contenuto di tali trattati è confrontato con i modelli sociali offerti dalla nostra Costituzione. Da un lato infatti l’intervento dello Stato nel mercato è un’ipotesi eccezionale, da delimitare entro circostanze tassativamente indicate (si veda ad esempio l’art.107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che non cito per brevità) e ulteriori e più stringenti vincoli sono posti da altri trattati, come il Fiscal compact o il Mes; dall’altro, la libertà di iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (così l’art.41 della nostra Costituzione).

Il legislatore è con le mani legate: di fronte a vari possibili strumenti di azione per rimuovere le disuguaglianze e promuovere lo sviluppo sociale, può scegliere solo quelli ammessi dai trattati. Anche questo è un aspetto da prendere in considerazione quando si affronta il problema della crisi democratica: la prospettiva liberista è l’unica ammessa- oltre al fatto che le istituzioni europee sono prive di legittimazione popolare (il Parlamento, pur essendo direttamente eletto dai cittadini europei con un sistema proporzionale, è sprovvisto dei poteri di un vero e proprio organo legislativo).

Insomma, si può affermare che, soprattutto da Maastricht in poi, si sia tornati a una forma di Stato liberale, con una forte astensione del potere pubblico dall’economia. Il contrario rispetto al ruolo che la nostra Costituzione assegna al potere pubblico: un ruolo tutt’altro che passivo nel rimuovere le disuguaglianze, garantire diritti e interessi personali o collettivi (diritto al lavoro, alla sanità, all’istruzione, a una congrua retribuzione…), secondo una forma di Stato democratico sociale.

La rapidità con la quale l’U.E. ha accantonato le regole del patto di stabilità e del divieto di aiuti di Stato per consentire a tutti i Paesi membri di far fronte alle situazioni di emergenza che si vanno profilando, non deve trarre in inganno: si tratta di deroghe previste dai trattati proprio per situazioni di questo tipo (si veda ad esempio il già citato art.107 TFUE che prevede al paragrafo 2, lettera “b” una deroga specifica al generale divieto di aiuti di Stato, per “ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali”). Quindi non è per nulla scontato che, finita la crisi, l’Europa manterrà l’attuale atteggiamento (per la verità abbastanza timido secondo molti): se i trattati rimarranno quelli in vigore, il pericolo di un ritorno allo Stato minimo non sarà mai scongiurato definitivamente; anzi, sarà più che probabile. In sostanza, l’essenza dell’U.E., che è statutariamente liberista, è anch’essa in quarantena, pronta a riuscire quando l’emergenza sarà finita.

La soluzione.

Posto il problema dell’impossibilità di praticare politiche di stampo socialista all’interno degli attuali vincoli europei, la sfiducia, il pessimismo di molti, sono dovuti al fatto che non si vedono, nell’attuale panorama politico, soluzioni concrete. Davanti a noi ci sono sostanzialmente due posizioni: una più nociva dell’altra. Quella di chi pensa che l’U.E. la si possa cambiare dall’interno; di chi non sa o fa finta di non sapere che la regola d’oro per la modifica dei trattati internazionali è l’unanimità dei contraenti e che è quindi una posizione la quale è per sé stessa destinata ad esaurirsi in un nulla di fatto: nel mantenimento dell’attuale regime (così si esprime la sinistra liberale). Quella di chi invoca un’uscita repentina, che probabilmente rischia di causare più danni di quanti ne voglia risolvere, e che nell’attuale panorama politico è appannaggio delle destre.

Una possibile soluzione per uscire da questa palude, in realtà, è stata proposta dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. Si tratta di una prospettiva che si può definire “costituzionalmente orientata”, nel senso che guarda alla Costituzione e alla sua realizzazione anche contro i vincoli europei, ma senza rinunciare a una prospettiva internazionalista (che in ogni caso è tutt’altro che realizzata oggi, se diamo al termine “internazionalismo” il significato che merita).

Il punto di partenza è la teoria che la nostra Corte costituzionale ha elaborato anni addietro, dalla metà degli anni 70, e che ha ribadito anche in tempi recentissimi, quando si è trovata ad affrontare il tema della gerarchia delle fonti del diritto. Questa giurisprudenza ha affermato, argomentando dall’art.11 Cost., che la legislazione interna è subordinata a quella dei trattati e in rapporto di parità con il così detto “diritto derivato”, cioè quello prodotto dalle istituzioni europee (regolamenti, direttive, ecc). Schematizzando la gerarchia delle fonti, abbiamo: 1.Costituzione>2.trattati (diritto primario)>3.leggi statali o regionali =”leggi europee” (diritto derivato) secondo le rispettive competenze assegnate dai trattati di Lisbona. Il tutto avviene a una condizione, cioè che il diritto derivato e primario non collidano con “i principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale e quindi, con i principi che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali” (sentenza 238 del 2014): in tali casi la potestà legislativa statale, compressa dai trattati, tornerebbe a riespandersi sulla materia disciplinata dalla fonte europea e censurata dalla Consulta. La teoria è detta “dei controlimiti” e afferma in sostanza il primato della Costituzione della Repubblica.

Analoga è la posizione della Corte costituzionale federale tedesca, ma contrariamente a quanto è avvenuto in Italia, dove tale teoria resta attualmente un’ipotesi di scuola, mai applicata, in Germania i controlimiti sono effettivamente entrati in gioco in alcuni casi per restituire competenze normative allo Stato (giudici sovranisti!).

Il punto diventa quindi quello di fornire ulteriori strumenti che permettano alla Consulta e al legislatore di applicare questa teoria, la quale consentirebbe di “sospendere” alcuni punti dei trattati europei, dove ce ne fosse bisogno, per la riaffermazione dello Stato democratico sociale (così, ad esempio, si potrebbero ricostituire le imprese di Stato, spendere in deficit aldilà del consentito per finanziare servizi essenziali per le persone, adottare un “reddito di quarantena”, come è stato suggerito in queste pagine virtuali).

Arriviamo dunque alla proposta del Cdc. Si tratta di un piano di revisione costituzionale che si muove su due fronti: da un lato esso mira ad abrogare di fatto la riforma costituzionale del 2012, approvata dalle Camere in ottemperanza al Fiscal compact, e che ha introdotto un rigido principio di pareggio di bilancio; dall’altro lato si vuole codificare la teoria dei controlimiti della Consulta, in particolare inserendo una clausola nell’art.117 la quale consentirebbe direttamente al legislatore statale e regionale (senza dover attendere una pronuncia della Consulta peraltro mai arrivata, si diceva precedentemente) di derogare ai vincoli europei per assicurare “la tutela dei diritti fondamentali delle persone” (così il nuovo inciso, seconda la proposta, nel testo del primo comma dell’articolo citato). Ulteriore effetto del nuovo art.117 sarebbe quello di rendere più facile, per il cittadino, poter ricorrere alla Corte costituzionale per denunciare una violazione di tali diritti fondamentali da parte della normativa comunitaria.

Non una rottura definitiva con una prospettiva di unità europea, quindi, ma la possibilità di legiferare anche in deroga agli attuali trattati per esigenze sociali di volta in volta individuate. Questa innovazione sarebbe, appunto, uno strumento in mano al legislatore: dipenderebbe, in sostanza, dalla sua discrezionalità politica come e quando servirsene, distaccandosi dai vincoli europei. E così arriviamo al problema di fondo: la totale assenza di una sinistra socialista nel nostro Paese in grado di attuare il disegno costituzionale. Se non si trova prioritariamente soluzione a questa fondamentale questione politica, gli strumenti giuridici resteranno ancora una volta inutilizzati.

Parallelamente (questo sì per superare gli attuali trattati) andrebbe avviata una discussione pubblica a livello dei singoli Stati, onde potere giungere all’elaborazione di un nuovo patto internazionale, una sorta di “trattato sul trattato” con cui si possa indire l’elezione di una ”Assemblea costituente” europea col compito di formulare, discutere ed approvare il testo di un trattato istitutivo di una nuova Unione, fondata su basi diverse. Tale testo, prima della ratifica da parte dei singoli Stati, dovrebbe poi superare il vaglio di una consultazione referendaria, per garantire sin dall’origine il pieno rispetto del principio democratico.

Se in ambito europeo non si dovesse percorrere una strada simile (che richiederebbe come conditio sine qua non l’incontro delle volontà di più Stati per redigere il “trattato sul trattato”), il nostro Paese sarebbe comunque “coperto” dall’avvenuta costituzionalizzazione della teoria dei controlimiti.

Mi perdoneranno i lettori se il discorso affrontato qui sia apparso tecnico e asettico. Si tratta in realtà di fornire alla politica i mezzi opportuni per realizzare obbiettivi concreti, ad esempio per “rimuovere gli ostacoli […] che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (così l’art.3 della Costituzione, che è in effetti l’obbiettivo per il quale abbiamo costituito la Rete dei democratici e socialisti).

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