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giovedì , 28 Marzo 2024

I centri sociali devono essere liberi dalla concorrenza.

A Bologna i centri sociali sono entrati nel mirino dell’amministrazione cittadina. La città ha sempre avuto degli spazi liberi, grazie anche all’università e alle energie nuove che porta a Bologna ogni anno.
Con queste abbiamo la possibilità di vedere l’attività politica dei suoi abitati sempre a un livello molto alto. In questi luoghi le persone creano un’area libera e inclusiva al contrario del sistema guidato dal capitale che crea sempre più spazi privati ed esclusivi. In questi spazi liberi le persone si confrontano, scambiano idee, crescono intellettualmente anche grazie alla possibilità di vedere un nuovo modo di vivere la vita, un modello che è basato sulla condivisione e sull’inclusione.
Molti di questi oltre ad offrire una condivisione intellettuale riescono anche a offrire nuovi modelli di mercato, come l’esperienza Campi Aperti che ha mosso i suoi primi passi proprio grazie alla possibilità di entrare in questi spazi e oggi è presente in tutta la città grazie alla conseguente collaborazione con il comune. Nei centri sociali poi non mancano i laboratori gratuiti che passano dall’insegnamento della lingua italiana per gli stranieri alle palestre sociali ai laboratori di musica. E se ne potrebbero citare tanti altri. In questi luoghi si sviluppa una cultura contro-egemonica che è di un’importanza incredibile per la società.
Allo stesso tempo, però, sono continuamente criticati per la loro “illegalità” da varie forze politiche e di sistema. Queste non si fanno scrupolo di usarli ai loro fini elettorali o di mercato: pensiamo anche solamente a quello che è avvenuto con lo sgombro di XM24 con un botta e risposta tra Merola e Salvini su facebook su chi sgombra e chi no.

Per la parte del mercato penso al mio amato hip hop nato nei vari centri sociali sparsi sul territorio italiano come strumento per raccontare i disagi che la società creava, i giovani artisti hanno imparato un’arte musicale e poetica che gli permetteva di esprimersi e arrivare a tantissime persone con il loro messaggio di resistenza.
Oggi il mercato ha trasformato questo tipo di resistenza nella sua gallina dalle uova d’oro alzandone sicuramente la tecnica ma abbassandone enormemente i contenuti e chi si ostina a voler usare l’hip hop per criticare la società viene lasciato nel suo piccolo spazio. Detto questo, perché i centri sociali non devono partecipare ai bandi per gli spazi di proprietà pubblica dove poter svolgere la loro attività? Innanzitutto parto dal fatto che per partecipare ai bandi pubblici bisogna avere una forma giuridica come ad esempio le associazioni e i centri sociali però non lo sono.
I centri sociali partono da gruppi di persone che hanno un’idea di società e vogliono uno spazio libero per metterla in atto. Il loro modo di operare non è basato su un business plan o un programma predefinito da seguire, ma è basato su ciò di cui la comunità ha bisogno e questo non è programmabile fin dagli inizi, ma lo si scopre solo iniziando questo percorso, aprendo le porte a tutti i cittadini, confrontandosi tramite assemblee pubbliche democratiche, ascoltandosi a vicenda mettendosi tutti sullo stesso piano. È un modello che non divide la società, ma cerca di unirla nelle sue diversità; non ricerca il guadagno individuale, ma quello collettivo; cerca di far vedere che un modello di sistema diverso da quello capitalistico neoliberale è possibile.

Come risponde il sistema? Le risposte sono diverse: chi si posiziona alla destra del palcoscenico politico condanna i centri sociali in tutto e per tutto e lo sgombero è la soluzione più adatta. Chi invece si posizione a sinistra non può rispondere con la condanna e lo sgombero, ma ha un modo più fine per affrontare il tema: secondo la sinistra italiana la risposta ai centri sociali è la loro omologazione al sistema e per omologarli li costringono ad abbandonare la loro natura puramente sociale e li incasellano nella realtà associativa, restringendo il loro margine di manovra e costringeloli a bandi pubblici per l’assegnazione di spazi dove poter operare per un breve lasso di tempo con il rischio di dover cambiare sede a ogni scadenza di bando. Questo perché i bandi nella loro visione democratica dell’assegnamento degli spazi sono in realtà un sistema di concorrenza sfrenata tra associazioni che potrebbero vedere il loro lavoro svanire perché non gli viene assegnato nessun luogo o nessun luogo adatto alle attività svolte fino a quel momento.
Si potrebbe obiettare che le regole sono uguali per tutti e che gli spazi di proprietà pubblica devono essere assegnati tramite bando altrimenti gli amministratori potrebbero incorrere in una denuncia per abuso d’ufficio per non aver fatto rispettare le regole a una realtà sociale che ha sede in una proprietà pubblica. Il ragionamento non fa una piega.

Non significa però che sia corretto. Questo ci deve far riflettere su come il sistema abbia degli errori e che questi portano a un’omologazione eccessiva delle realtà sociali. Ma forse è proprio questo il punto: le relazioni sociali create dal capitalismo offuscano il profilo pluralistico e collettivo. Si usano termini come proprietà (pubblica) e concorrenza come performativi in grado di assoggettare alla propria logica ogni aspetto della vita: utilizza termini di mercato per arrivare a un appiattimento delle differenze e per averne anche il controllo.

È per questo motivo che credo sia sbagliatissimo obbligare i centri sociali a partecipare ai bandi per avere uno spazio dove operare. Di solito lo spazio l’hanno già, se lo sono presi, hanno occupato spazi pubblici che il demanio lascia spesso vuoti e in cattive condizioni. Occupandoli le persone se ne prendono cura, li rimettono a posto e li rendono un posto accessibile a tutti e dove tutti possono dare una mano se volenterosi. In più offrono servizi gratuiti che vanno ad aiutare quella fascia sociale che è in difficoltà: aiuta i ragazzi a fare attività che probabilmente non potrebbero fare per mancanza di soldi da parte della famiglia e come Campi Aperti aprono nuovi mercati oggi monopolizzati dalla grande distribuzione.

Trovo sbagliato far partecipare i centri sociali ai bandi perché queste realtà hanno bisogno di uno spazio sicuro per portare avanti i propri progetti e per diventare un punto di riferimento sicuro per i cittadini. Metterli in una condizione precaria come la scadenza temporale di un bando non agevola il lavoro e soprattutto comincia quel processo di dominio egemonico del mercato che diventa quasi una regola di vita dalla quale non si può scappare.

È sbagliato.
Profondamente sbagliato.

Perché le comunità non sono tutte uguali. Non tutti hanno bisogno della concorrenza per fare meglio: bisogna cominciare a dare ascolto a chi critica il concetto di proprietà come una cosa esclusiva. I centri sociali sono un bene comune e come tali andrebbero trattati.
Non come associazioni, perché non lo sono.
Sono convinto che sia sbagliato obbligare queste realtà a trasformarsi in associazioni, perché serve solo per iniziare il loro percorso burocratico all’interno del sistema che poi non li tutela. Non voglio certo criticare le associazioni, ma voglio dire che il nostro diritto dovrebbe andare incontro a queste realtà e non viceversa.

Non esiste errore più grande per un’amministrazione che dare la stessa risposta a domande diverse.

Probabilmente è l’eredità che ci portiamo dietro da questo periodo della tecnica che obbliga a vedere tutto uguale difendendosi dietro a un’interpretazione distorta di democrazia ma è arrivato il momento di superare questo modo di pensare e cominciare a ragionare in termini più sociali e meno di mercato.

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